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Lina Wertmüller e l’Oscar mancato di “Pasqualino Settebellezze”

Mario Galeotti Notizie Dic 12th, 2021 0 Comment

Il 9 dicembre scorso si è spenta a Roma, all’età di novantatré anni, la regista Lina Wertmüller. Alle esequie, alla Chiesa degli Artisti, hanno preso parte, oltre alla famiglia, tanti amici e colleghi: tra gli altri, Giancarlo Giannini, Giuliana De Sio, Caterina D’Amico, Elisabetta Villaggio, il nipote Massimo Wertmüller e Rita Pavone, che a metà degli anni Sessanta aveva lavorato con la regista nel celebre sceneggiato televisivo Il giornalino di Gian Burrasca. Nel 2020, nella consueta cerimonia che si tiene ogni anno a Los Angeles, le era stato assegnato l’Oscar onorario, a coronamento di una lunga carriera nel mondo del cinema che, dagli inizi come aiuto regista di Federico Fellini, l’ha portata poi a firmare pellicole memorabili: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia (1973), Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici (1978), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), Io speriamo che me la cavo (1992). In quell’occasione le tributarono il loro omaggio personaggi come Leonardo Di Caprio, Martin Scorsese, Quentin Tarantino.

Ma l’Oscar alla carriera fu soprattutto l’occasione per riparlare del suo capolavoro Pasqualino Settebellezze (1975), che nel 1977 aveva ottenuto ben quattro candidature all’Oscar (miglior film in lingua straniera, migliore regia, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura), una candidatura ai Golden Globe, una ai Directors Guild of America Awards e altre tre ai New York Film Critics Circle Awards. La Wertmüller fu la prima donna ad essere stata candidata all’Oscar per la miglior regia. Pur non essendosi aggiudicato nessuna statuetta, il film Pasqualino Settebellezze, interpretato magistralmente da Giancarlo Giannini, ha avuto un successo clamoroso negli Stati Uniti, cosa che all’epoca non venne giudicata molto bene dal giovane Nanni Moretti. Nel suo lungometraggio d’esordio Io sono un autarchico, realizzato nel 1976 in Super8 con pochissimi soldi e con l’aiuto di amici e parenti, il regista citava infatti proprio questo e altri film della Wertmuüller e lo faceva con tono polemico. Messo al corrente del fatto che alla Wertmüller è stata offerta la cattedra di cinema all’Università di Berkeley, proprio lei, “quella di Pasqualino Settebellezze”, il protagonista Michele (impersonato dallo stesso Moretti) esterna il suo evidente nervosismo sputando bile verdastra. “Vedrai che il cinema italiano finalmente ha trovato il suo alfiere”, gli dice l’amico, “i nostri film incassano, piacciono, questo è un avvenimento importante che crea un precedente”. Era la provocazione di un esordiente che, con approccio intellettualistico, si ergeva a portavoce di un cinema alternativo, di sperimentazione, di rottura con il passato. Quando Mario Monicelli descrisse alla Wertmuller la scena tratta da Io sono un autarchico, lei pensò semplicemente che si trattasse di una trovata simpatica. Ma poi, incontrando di persona Nanni Moretti e constatandone l’atteggiamento fortemente ostile, la Wertmüller capì che la polemica del film non era stata solo un innocuo scherzo e volle sfogarsi con un bel “vaff….”.

Sia Monicelli, con tutta la tradizione della commedia all’italiana, che la Wertmüller erano i rappresentanti di un mondo artistico che secondo Nanni Moretti andava superato. Lo spiegò nel 1977 nel corso di una puntata del programma televisivo Match, condotto da Alberto Arbasino, in un memorabile confronto proprio con il veterano Monicelli: uno scontro generazionale dove il ventiquattrenne Moretti, con fare un po’ insolente, si scagliava contro il cinema italiano dei grandi circuiti, ad alto budget, contro il richiamo esercitato dal divismo e le politiche commerciali di produttori e distributori, interessati a conseguire il successo al botteghino. Ma se pensiamo alla commedia all’italiana e ai suoi interpreti (Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman), al di là dell’espediente commerciale sappiamo bene quale importante funzione questo genere abbia avuto nel delineare un ritratto impietoso del nostro Paese, nel disegnare con pungente ironia e tanta amarezza “morfologie e tipologie dell’italiano” (Gian Piero Brunetta).

Pasqualino Settebellezze è un film grottescamente drammatico, o drammaticamente grottesco, che della commedia all’italiana conserva la cinica e deformante messinscena di vizi e difetti degli italiani, ma senza mai sconfinare nel comico. Le notazioni umoristiche ci sono, ma a prevalere è sempre la tragedia: l’omicidio e il perverso occultamento di cadavere, le immagini dell’ospedale psichiatrico con l’elettroshock e l’abuso indecente di una povera malata legata al letto, la sciagura della seconda guerra mondiale e gli aguzzini tedeschi di un campo di concentramento. Il fenomeno napoletano della guapparia, nel personaggio di Pasqualino Frafuso detto “Settebellezze” (Giancarlo Giannini), è il pretesto per descrivere, in un crescendo di follia e alienazione, la filosofia tutta nostra del “tirare a campare”. Dagli anni Trenta alla fine della guerra, dopo aver fatto dell’onore la sua bandiera e la sua ragion d’essere, il guappo prepotente Pasqualino si ritrova a calpestare più volte quell’onore per potersi salvare la pellaccia e sopravvivere alle avversità. Dopo aver commesso un delitto d’onore che tale non può essere considerato, perché la vittima era disarmata, e dopo aver cercato di sbarazzarsi del cadavere facendolo a pezzi, scoperto accetta la proposta dell’avvocato di avvalersi dell’infermità mentale, in modo da limitare la condanna a dodici anni da scontarsi nel manicomio criminale di Aversa. Recluso, nel 1940 accoglie di buon grado la proposta del regime di commutare la pena arruolandosi e prendendo parte alla spedizione in Russia. Al momento più opportuno riesce a disertare ma, catturato dai nazisti, viene rinchiuso in un campo di concentramento, dove gli stenti e i morsi della fame lo portano addirittura a corteggiare la comandante tedesca – un donnone quadrato privo di grazia e femminilità – nella folle speranza di ottenere un trattamento di favore. Messo alla prova con implacabile freddezza dalla donna, Pasqualino è costretto a dare dimostrazione della propria virilità (impresa ardua), ma non prima di essersi rimesso in forze con del cibo che gli viene servito in una scodella, per terra, come un cane. Nominato kapò, deve scegliere sei detenuti da mandare a morte: brutto compito, ma sempre meglio che perdere lui stesso la vita. L’unico ripensamento lo ha quando gli viene ordinato di uccidere di persona l’amico Francesco, che si è ribellato alle guardie: non vuole farlo e alla fine esegue solo perché è Francesco a supplicarlo di sparare, così da mettere finalmente fine alle sue sofferenze. Conclusa la guerra, torna a casa dalla madre e dalle sorelle. Si guarda allo specchio, è vivo… ma a quale prezzo? Non è più lui. “Che bizzarra farsa è la vita!”, aveva esclamato Pasqualino Settebellezze. Ma il senso del film è racchiuso più nelle parole della corpulenta capa nazista che, di fronte allo sfacciato opportunismo dell’italiano con le sue fasulle avance amorose, aveva detto: “vincerete voi, piccoli vermi d’Italia, senza ideali né idee!”.

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Mario Galeotti

(Sestri Levante, 1974) Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l'Università di Genova. Si occupa di storia del cinema e dello spettacolo e ha una lunga esperienza nel settore degli audiovisivi. Attualmente collabora con le testate on line InsideThe Show e Carte di Cinema. E' autore di diversi libri: Dino l'amico italiano. Vita e carriera di Dean Martin (Falsopiano, 2017), Immagini e presenze americane nel cinema italiano (Europa Edizioni, 2018), Grande Tony. Little Tony, storia matta di un cuore rock (Arcana, 2018), Lo squadrone bianco. Il cinema coloniale italiano negli anni del fascismo (La Tigulliana, 2019), Peter Cushing e i mostri dell'inferno (Falsopiano, 2020).

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