Il critico Mark A. Miller aveva scritto che gli indimenticabili Peter Cushing e Christopher Lee, amatissimi interpreti della grande stagione dell’horror britannico, erano stati capaci, nei film girati insieme tra gli anni Cinquanta e Settanta, di rendere plausibili le situazioni più insensate e di farlo con assoluta naturalezza: “nessun’altra coppia di attori è riuscita a mostrare in un simile compito tanta disinvoltura” (M. A. Miller, Christopher Lee and Peter Cushing and Horror Cinema. A Filmography of Their 22 Collaborations, McFarland & Company, 1995, p. 297).
Una delle pellicole in cui questa loro propensione è più evidente è Il terrore viene dalla pioggia (The Creeping Flesh, 1973), un film diretto con maestria da Freddie Francis e prodotto dalla casa di produzione inglese Tigon, dove fu proprio la presenza dei due attori a evitare che le assurdità della trama sconfinassero nel ridicolo. Il regista, in particolare, lodò la capacità di Cushing di “rendere ogni cosa credibile e ce n’era bisogno in un film come questo, lui portava una totale convinzione in ogni cosa che faceva” (R. Salvagnini, Christopher Lee, Peter Cushing e Terence Fisher: due amici e chi li ha fatti conoscere, in: F. Zanello, Christopher Lee il principe delle tenebre, Profondo Rosso, Roma 2008, p. 39). Il ruolo di Christopher Lee risultava meno preponderante ma comunque efficace e riproponeva una tipologia di personaggi freddi e altezzosi per lui abituale. Cushing, vero protagonista del film, ne era il contraltare più umano e sensibile, anche se a tratti molto ambiguo.
La storia si svolge sullo sfondo della Londra vittoriana. Il professor Emmanuel Hildern (Cushing) e James Hildern (Lee) sono fratellastri, entrambi studiosi, animati da una recondita rivalità che inevitabilmente si inasprisce quando decidono di concorrere tutti e due al prestigioso premio Richter per la ricerca scientifica. James dirige un ospedale psichiatrico, dove scopriamo essere stata rinchiusa da molti anni la moglie di Emmanuel, Marguerite (Jenny Runacre), ex artista di varietà francese, ora deceduta proprio in quel manicomio. James sta lavorando, in vista del premio, a un volume sulla causa e la prevenzione dei disordini mentali. Emmanuel, invece, sta compiendo ricerche sul Male inteso come “organismo vivente”, come “un morbo che affligge l’umanità alla pari del colera o del tifo”, una malattia che può essere curata e prevenuta. In seguito al ritrovamento in Nuova Guinea di un gigantesco scheletro che precede l’uomo di Neanderthal (ma sembra stranamente più evoluto) e che in caso di contatto con l’acqua vede riformarsi i tessuti, dopo vari approfondimenti Emmanuel scopre di essere di fronte ai resti di un’antica entità malvagia e si convince di poter isolare, attraverso la carne di un dito della creatura che si è rigenerato proprio con l’acqua, il bacillo del Male. Se, dunque, il Male è un’infezione, allora è possibile creare un vaccino. Iniettando sull’uomo una minima quantità di siero ricavato dalle cellule maligne, tutti potranno diventare immuni da ogni impulso maligno. Angosciato dal dubbio che sua figlia Penelope (Lorna Heilbron) possa ereditare la pazzia della madre, Emmanuel decide di iniettarle il siero, senza però averlo prima testato a sufficienza. Gli effetti sono devastanti e Penelope comincia ad aggirarsi di notte per i quartieri malfamati di Londra, in atteggiamenti libertini che ricordano quelli della madre descritti nel flashback in cui Emmanuel torna con la memoria alla giovane Marguerite prima che si ammalasse. Venendo a conoscenza dei trascorsi di sua moglie, ballerina irrequieta, lo spettatore è legittimamente assalito dal dubbio che l’uomo l’abbia fatta rinchiudere per la sua condotta lasciva e i continui tradimenti. Ma, d’altra parte, è verosimile anche che la pazzia di cui la vediamo preda (nei ricordi di Emmanuel) nelle ore che precedettero il ricovero coatto fosse stata provocata da una malattia venerea contratta in seguito ai ripetuti rapporti sessuali avuti da Marguerite con uomini diversi. L’infermità mentale, ora, sembra aver assalito anche Penelope, ma non per un fattore ereditario: piuttosto, per colpa del vaccino sperimentato su di lei dal padre. Dopo che la ragazza, prelevata con forza a causa della sua improvvisa aggressività, è stata trasportata al manicomio, James la riaccompagna a casa del fratello. Curiosando nel laboratorio vede lo scheletro e legge alcuni appunti. Dopo un’accesa discussione con il sopraggiunto Emmanuel, gli sottrae di nascosto le carte e medita di rubare al più presto il sensazionale reperto rinvenuto in Nuova Guinea. Ha inizio l’ultima parte del film, dove Cushing e Lee dimostrano ancora una volta che “nessun’altra coppia di attori è riuscita a raggiungere lo stesso livello raffinato di credibilità nello scontro tra i rispettivi personaggi” (M. A. Miller, Christopher Lee and Peter Cushing and Horror Cinema, cit. p. 306). Con il furto dello scheletro da parte di James si ha un crescendo “realizzato attraverso parecchie scene di forte carica evocativa: la rincorsa nella notte tra alberi frondosi e incombenti sotto una pioggia sferzante che per lo spettatore ha molti significati; le inquadrature dell’essere resuscitato visto in lontananza con il nero mantello che Lee, in un simbolico (e metacinematografico) passaggio di consegne, gli ha messo addosso […] la fuga di Peter Cushing che, sapendo di essere inseguito dal mostro, si rifugia – in modo apparentemente incongruo, ma psicologicamente rivelatore – nella stanza dei suoi ricordi cercando di rifiutare il presente tuffandosi nel passato” (R. Salvagnini, Christopher Lee, Peter Cushing e Terence Fisher, cit., p. 38). In realtà, capiamo che tutta la storia è il racconto fatto da Emmanuel, ricoverato in manicomio, a un giovane dottore (David Bailie) nella speranza che gli creda. Lo spettatore rimane nel dubbio. E’ stato veramente rinchiuso dal fratellastro, che ha potuto così appropriarsi delle sue scoperte scientifiche aggiudicandosi il premio Richter ? Oppure l’intero racconto è solo frutto della fantasia delirante di un povero pazzo ?
Nel film c’è una scena molto struggente che – come in altre pellicole realizzate in quel periodo, pensiamo a Racconti dalla tomba (Tales from the Crypt, 1972) e The Ghoul (1974), diretti da Freddie Francis – mette sorprendentemente a nudo, attraverso l’angoscia del suo personaggio, il dolore autentico vissuto dall’attore Peter Cushing dopo la perdita prematura dell’adorata moglie Helen, scomparsa nel gennaio del 1971. Il vedovo Hildern, uscito dal laboratorio, sente il suono del pianoforte e, sconvolto, crede di riconoscere il tocco della defunta moglie Marguerite. In preda al turbamento sale le scale e, entrato nella stanza che fu della donna, vede una figura femminile di spalle seduta al piano, con gli stessi abiti da ballerina di music hall ch’erano appartenuti alla moglie. Piangendo sussurra “Marguerite! Marguerite!” e, avvicinatosi, le sfiora amorevolmente le spalle. Lei si gira di colpo, interrompendo bruscamente di suonare, e scopriamo così che si tratta della figlia, alla quale era stato sempre interdetto fin da bambina di entrare in quella stanza e che per la prima volta ha disubbidito, spinta dal desiderio di penetrare nell’evanescente mondo di una madre soubrette di cui conserva solo un lontanissimo e sbiadito ricordo. Il dolore e l’agitazione del protagonista in lacrime sono talmente reali, che non si può fare a meno di ricondurli al dramma interiore di Cushing, ancora sconvolto dalla recente perdita.
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