Per lungo tempo critico cinematografico e teatrale per il quotidiano genovese «Il Secolo XIX», docente di Cinema e Comunicazione e di Storia del Cinema, autore prolifico (tra le sue pubblicazioni ricordiamo I film di Federico Fellini, Commedia italiana in cento film, Western in cento film, Claude Chabrol), Aldo Viganò ha da poco pubblicato con Falsopiano un libro che ripercorre analiticamente l’intera filmografia del poliedrico Vittorio De Sica, dal precoce (e, per almeno un decennio, isolato) debutto come attore cinematografico in Il processo Clémenceau (di Alfredo De Antoni, 1917) alle sue acclamate regie che hanno dato prestigio internazionale al cinema italiano (Sciuscià, 1946; Ladri di biciclette, 1948; Miracolo a Milano, 1951; Umberto D., 1952), dall’esordio dietro la macchina da presa negli anni del regime con le commedie Rose scarlatte (1940) e Maddalena… zero in condotta (1940) alla lunga galleria di irresistibili personaggi che ne hanno messo in mostra grandi doti di caratterista (Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, 1953; Pane, amore e… di Dino Risi, 1955; Totò, Vittorio e la dottoressa di Camillo Mastrocinque, 1957; I due marescialli di Sergio Corbucci, 1961), dal ruolo drammatico nel film di Roberto Rossellini Il generale Della Rovere (1959) fino all’ultimissima e non certo memorabile partecipazione come attore in Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (di Paul Morissey e Antonio Margheriti, 1974).
Formatosi negli anni Venti sui palcoscenici italiani con le compagnie teatrali di Tatiana Pavlova, di Luigi Almirante, Giuditta Rissone, Sergio Tofano, di Guido Salvini e di Mario Mattoli, il primo a valorizzare sul grande schermo il Vittorio De Sica attore fu Mario Camerini con una serie di pellicole che, grazie al tocco leggero del regista e alle sue capacità di osservazione del quotidiano, si ponevano al di sopra della media nel panorama della commedia cinematografica degli anni del fascismo: Gli uomini che mascalzoni… (1932), Darò un milione (1935, scritto tra gli altri da Cesare Zavattini che qualche anno più tardi segnerà, al fianco di De Sica, la grande stagione del neorealismo), Il signor Max (1937), I grandi magazzini (1939). Viganò sottolinea come questi film, oltre ad aprirgli le porte del divismo, abbiano fatto emergere quella che nel corso della sua carriera è sempre stata una delle componenti specifiche della recitazione di De Sica: il tema del doppio, del personaggio che si finge altro, che (come lo chauffeur Bruno in Gli uomini che mascalzoni… o il giornalaio Gianni in Il signor Max) si divide tra “comportamenti, ruoli sociali e stati d’animo molto diversi tra loro; dettati ora dalle circostanze, ora dalle situazioni e ora anche dall’opportunismo”. Questa peculiarità sarebbe stata una costante del suo percorso di attore, anche in anni più recenti con quei ruoli di caratterista per i quali era richiestissimo, ed è lecito parlare di De Sica come di “interprete che non si identifica mai completamente nel personaggio”, che entra e esce dalla parte con disinvoltura per calarsi temporaneamente in un altro ruolo, svelando allo spettatore l’inganno della messinscena. È curioso, però, notare che la tendenza allo sdoppiamento connotava anche il De Sica uomo che, dopo la separazione dalla prima moglie Giuditta Rissone (dalla quale aveva avuto una figlia nel 1938, Emilia) e l’unione, dapprima in Messico e poi in Francia, con l’attrice catalana Maria Mercader che gli diede due figli maschi (Manuel, nato nel 1949, e Christian, nato nel 1951), si divideva costantemente tra le due famiglie in un doppio ménage che, soprattutto nelle ricorrenze e nei giorni di festa, diventava logorante.
Primattore sulle scene teatrali; divo degli anni Trenta nel clima dei cosiddetti “telefoni bianchi”; cantante confidenziale (non si può non ricordare il suo cavallo di battaglia, Parlami d’amore Mariù, proposto per la prima volta nel 1932 nel film Gli uomini che mascalzoni…); regista di alcuni dei capolavori del neorealismo cinematografico italiano del secondo dopoguerra (Sciuscià e Ladri di biciclette furono premiati con l’Oscar per il miglior film straniero, cosi come anni dopo lo stesso riconoscimento andò a Il giardino dei Finzi Contini, girato da De Sica nel 1970) ma anche autore dagli esiti discontinui e non sempre apprezzato dalla critica; attore che negli anni Cinquanta e Sessanta seppe reinventarsi accettando di buon grado (cosa che altri colleghi non avrebbero fatto) la nobile arte del caratterista, che come spiega Viganò “si concretizza nel saper insaporire e vivacizzare personaggi di contorno, anche quando questi non sembrano aver alcuna importanza nella narrazione principale”, arte che nel suo caso originò una galleria di maschere indimenticabili, popolata da avvocati, militari, nobili decaduti, truffatori, ecclesiastici; ancora regista, dopo l’esaurirsi del progetto neorealista, con nuove scelte estetiche e narrative (L’oro di Napoli, 1954; La ciociara, 1960; Il giudizio universale, 1961; Il boom, 1963; Ieri, oggi, domani, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964; Il viaggio, 1974) che gli valsero la definizione spregiativa di ‘Stars Director’ asservito alle leggi del mercato, pur mantenendo comunque una linea di continuità stilistica individuabile soprattutto nella perenne centralità dello sguardo di De Sica sull’essere umano e i suoi sentimenti, sull’umanità in quanto tale; sempre attore, che mosso da straordinario vitalismo e incapace di rifiutare scritture (una volta confessò: “Quando il telefono suona a casa mia, io alzo il ricevitore e dico sì”), accettava a volte ruoli discutibili, come quello del marchese Di Fiori nel già citato porno-horror di Paul Morissey prodotto dalla factory di Andy Wharol, forse anche per necessità economiche dovute al suo impellente vizio del gioco. Vittorio De Sica è stato un uomo di spettacolo dalle molte vite, che come disse lui stesso in un’intervista è nato e morto almeno cinque volte: una carriera unica nella storia del cinema.
TuttoDeSica. Protagonista – Regista – Caratterista di Aldo Viganò è un libro utile e prezioso, che ci aiuta a riscoprire l’intensa e articolata carriera di uno dei più importanti attori, autori e registi italiani che ha saputo inventarsi e reinventarsi più volte. La filmografia decisamente discontinua di Vittorio De Sica, che conta complessivamente quasi duecento film tra interpretazioni e regie (inclusi i lavori televisivi), lo ha reso un artista difficile da inquadrare in un’unica definizione. Ma l’ambizione di questo libro è proprio quella di trovare un principio di unità nell’opera complessa di un personaggio che, almeno in apparenza, è sempre sfuggito ai tentativi di un’analisi unitaria, considerando anche che, come scrive Viganò in chiusura, “De Sica è uno di quei cineasti che hanno avuto un bisogno quasi fisico di realizzare dei film. Non importa se dietro o davanti alla cinepresa. La paura che il telefono non suonasse più in casa sua lo terrorizzava: non tanto sul piano economico, quanto su quello esistenziale. Fare film era, infatti, per lui come vivere”.
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