Le tenebre questa volta sono anche quelle di una memoria che latita e si decompone, e l’ispettore Moretti (Max Von Sydow), in età da pensione, fatica a ricordare cosa accadde trent’anni prima. I delitti del “nano” sembrano trovare un nuovo corso e chi come Giacomo (Stefano Dionisi) vide uccidere la madre, non ha potuto contare sull’azione riparatrice della giustizia. In quel carillon del tempo che il film singolarmente porta in scena, Non ho sonno (2001) avanza una valutazione sconfortata sulla contemporaneità: oggi le indagini seguono una logica fredda dettata da procedure informatiche incapaci di lasciare spazio all’intuito o alla riflessione. O almeno così sembra a Dario Argento e al suo alter-ego Ulisse Moretti, il quale, nondimeno, continua ad essere chiamato a rapporto per indagare sulla realtà criminale del proprio tempo. E Moretti, chiamato in causa da un’indagine che solleva antiche domande, finisce per riportare a galla qualche sprazzo, qualche avvisaglia di senso in grado di aiutare le ricerche.
Il ritorno di Dario Argento a Torino agli albori del Duemila rappresenta l’incontro tra il regista e alcuni luoghi periferici, isolati, della città. Diversamente da quando si poteva cogliere ne Il gatto a nove code, Torino non è più il set di un mondo tetramente razionale da scardinare con le mosse deraglianti dei personaggi, ma l’ambiente di un fascino misterioso che implica un rapporto particolare con il passato e con la memoria. Una suggestione che Argento ricercherà nei successivi Ti piace Hitchcock? e Giallo, entrambi ambientati a Torino. Negli ultimi anni infatti, Torino diviene il set ideale per Dario Argento: la città ama il regista ma soprattutto il regista trova in Torino un’altra isola produttiva, grazie alla “Film commission” e ai numerosi set naturali nella planimetria del capoluogo piemontese. Vi ritrova quello spirito tenebroso, ancora diffuso e percepibile, e il contrasto con le costruzioni moderne: una nota d’inquietudine che riverbera nelle abitazioni e tra le strade che in Non ho sonno fanno da scenario di una vicenda di morte e cancellazione dei ricordi.
All’origine della vicenda ci sono tre omicidi commessi a Torino nel 1983, tra cui quello della madre di Giacomo Gallo, l’inquieto protagonista interpretato da uno Stefano Dionisi sotto tono (nel film gli attori, peraltro solitamente bravi, non brillano, sembrano partecipare ad un evento, e il migliore è sicuramente Von Sydow, anche per la maggiore attenzione riservata al suo personaggio). Gli omicidi sono attribuiti a Vincenzo de Fabritiis, uno scrittore di romanzi gialli soprannominato il “nano” (gli effetti caricaturali, in linea con il Dario Argento che conosciamo, non sono questa volta un punto di forza). Sui luoghi del delitto viene ritrovata, ogni volta, una piccola figura di carta che rappresenta un animale. Fabritiis, incriminato come l’autore dei delitti, viene ritrovato morto e si pensa ad un suicidio. Ulisse Moretti, incaricato dell’indagine, chiude così le ricerche. Diciassette anni più tardi, Giacomo, che nel frattempo si è trasferito a Roma, riceve da Lorenzo, uno dei suoi amici d’infanzia di Torino, la notizia che nuovi delitti stanno avvenendo e che il “nano” sembra essere di nuovo implicato nei fatti. Tra i delitti svetta quello del clamoroso incipit sul treno, in una sequenza che, nonostante sorvoli sulla plausibilità di alcuni elementi, regala un momento alto, dove Argento annuncia che Non ho sonno si inerpica nelle temperature da brivido del passato. Giacomo ritorna a Torino, dove ritrova Lorenzo ma anche Gloria (Chiara Caselli), la sua amica d’infanzia suonatrice d’arpa, legata sentimentalmente ad una persona esecrabile, pronta però a mettere ordine nella sua vita. A Torino, Giacomo rivede anche il commissario Moretti, oggi in pensione, il quale, in virtù della vicinanza del giovane che riconosce animato da un sincero desiderio di conoscere la verità, decide di prendere in mano ufficialmente l’indagine e di aiutare Giacomo nelle sue ricerche.
In tutti questi anni, Moretti ha dormito molto poco. La vita di un commissario sulle tracce di un efferato omicida non lascia molto posto alla tranquillità.
Il titolo del film evoca anche uno stato di frenesia dei nostri anni, dove è sempre più difficile avere un’esperienza piena e serena del tempo. Non avere sonno, non dormire, significa anche trascurarsi, non dare spazio al tempo riparatorio e allucinatorio del sonno, perché proprio non si riesce a dormire, quando i fantasmi del passato cercano di affiorare e di trovare un volto. Ma Non ho sonno è anche il monito di un regista che dimostra di voler girare nuovamente un giallo con la carica di violenza espressiva che, fuor di metafora, tiene svegli, ridesta dal torpore di una mediocrità cinematografica che gli anni in corso sembrano assecondare nei toni da fiction di ogni nuova esperienza d’autore. Occorre sottolineare che l’immersione di Argento nel giallo convince solo a tratti a livello di scrittura e non evita al regista l’effetto revival un po’ raffazzonato sui luoghi mentali di Profondo rosso, con attori, quali Gabriele Lavia e Rossella Falk, decisamente sacrificati. Si scorge un Dario Argento, per così dire, felliniano, pronto a regalare qualche sussulto autocelebrativo, come nella sequenza in cui, memore di Tenebre, la macchina da presa sorvola il tetto della casa del “nano”. Gli omicidi, fatta eccezione per la sequenza d’avvio sul treno, sono piuttosto attesi e prevedibili, con la forzatura degli effetti sadici del maniaco. Però Non ho sonno libera sprazzi argentiani e tocchi gustosi, come il lungo carrello sul parquet rosso nel teatro in cui si attende l’ennesimo delitto del “nano”. Il gusto della paura è un po’ sacrificato, e se l’autore torna a farsi sentire in maniera esclamativa, la suspense cede il posto a qualche errore di montaggio (molto debole il contrasto parossistico-musicale ottenuto con il montaggio alternato della corsa in auto di Giacomo al voltante per raggiungere e salvare Gloria a teatro, impegnata con la musica del Lago dei cigni). Non ho sonno sembra un po’ anche la ricerca di una conferma. Ciò che emerge imperioso è il filo della memoria, e in questo senso il commissario Moretti, interpretato da quel Max Von Sydow attore feticcio per Ingmar Bergman per film come Il settimo sigillo (1957) o La Fontana della vergine (1960), è una figura dalle chiare reminiscenze letterarie, e in lui il riavvolgersi faticoso della memoria evoca la dimensione riflessiva di chi legge attentamente il passato. In questa luce, Non ho sonno è anche il film di Argento in cui elementi di scrittura e tracce testuali corrispondono a una letterarietà intrinseca; si pensi ad esempio alla funzione della filastrocca che Moretti ricorda essere tratta da un romanzo inedito di Vincenzo, “La fattoria della morte”, manoscritto che venne trafugato nel 1983. Il tema della memoria, d’altronde, è un’ossessione che contempla anche l’assenza di un immediato testo scritto che sia fonte di confronto. Quella filastrocca, memore delle nenie infantili di Profondo rosso, annuncia una serie di delitti che il fattore-assassino segue alla lettera: dopo la “ragazza-gatto”, arriva il turno della “ragazza-coniglio” e della “ragazza-cigno”.
Giacomo e Ulisse rinnovano la tradizione dell’insolita coppia d’investigatori senza autorizzazione che popolano la filmografia argentiana, e alla base dell’ossessione per la verità di entrambi c’è, questa volta, un rapporto distorto e dilatato con la verità, attraverso la mediazione di una memoria incerta.
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