In occasione del centenario della nascita di Ugo Tognazzi (era nato il 23 marzo del 1922 a Cremona), riproponiamo la lettura del suo primo libro di cucina, L’abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire, pubblicato da Rizzoli nel 1974: perché è risaputo che, oltre ad essere uno dei più grandi attori italiani di sempre, Tognazzi è stato anche un cultore del cibo e un provetto cuoco.
Nel 1973, l’attore cremonese era apparso in uno dei film più geniali e controversi della sua intera carriera cinematografica: La grande abbuffata di Marco Ferreri, dove uno chef, un produttore televisivo, un pilota dell’Alitalia e un magistrato (impersonati rispettivamente da Tognazzi, Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret) decidevano di rinchiudersi in una villa e porre fine alle loro vite deprimenti mangiando a dismisura, fino alla morte. Storia tragica, degradante, grottesca e, come la definì il regista, fisiologica, all’epoca La grande abbuffata destò scalpore e, oltre ai fischi al Festival di Cannes e i tagli della censura, divise nettamente la critica. L’anno dopo, con il libro L’abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire – evidente richiamo al titolo del film di Ferreri ma anche gioco di parole tra “abbuffata” e “buffone” (nel senso di guitto) – l’attore esprimeva una filosofia edonistica del cibo, visto come momento di alto godimento: filosofia che lo aveva portato ormai da parecchi anni a rivestire, con molta convinzione, anche il ruolo occasionale di chef. Diceva di avere “la cucina nel sangue” e di essere “malato di spaghettite”, anche se nelle interviste ci teneva a puntualizzare di non essere un gran mangione. Era, piuttosto, un osservatore di chi mangia. Come ricorda il figlio Gianmarco, nella sua casa di campagna a Velletri suo padre passava gran parte del tempo dietro i fornelli per preparare cene alla famiglia e agli amici: un’aspirazione, quella di cuoco, nata come autodidatta negli anni dell’avanspettacolo. La preparazione di quelle cene era vissuta come l’allestimento di uno spettacolo, nella speranza di incontrare il favore del suo pubblico che in questo caso erano i commensali. “Dopo aver preparato una cena”, scriveva Tognazzi nella prefazione, “la mia più grande soddisfazione è l’approvazione degli amici-commensali”.
Il libro è diviso in tre parti: una prima parte, chiamata “autogastrobiografia”, che ripercorre nostalgicamente alcuni degli episodi cruciali della vita di Tognazzi nei quali, per un motivo o per l’altro, è sempre presente il cibo; la seconda è una vera e propria raccolta di ricette, alcune già abbastanza note ma personalizzate dall’attore; la terza e ultima parte riguarda la singolare esperienza vissuta sul set de La grande abbuffata e le ricette che nel film accompagnavano la vocazione autodistruttiva dei quattro protagonisti.
Nella prima parte, la cronaca della propria vita, dall’infanzia agli anni più recenti, avviene attraverso la rievocazione di cibi, pietanze, ricette, associati affettivamente (e con un pizzico di ironia) a un momento particolare, a un episodio curioso, a una persona cara. Facciamo la conoscenza, così, della zia del brodo, del nonno lattaio, del garzone di bottega pagato con la squisita minestra della nonna di Ugo. Veniamo a sapere che suo padre Gildo, originario di Milano, non mangiava il gorgonzola, con grande dispiacere della suocera cremonese, e che verso la fine degli anni Trenta, impiegato per breve tempo presso il salumificio Negroni nella sua Cremona, ogni settimana Ugo veniva omaggiato (come tutti gli altri impiegati e gli operai) di una lingua di maiale che sua mamma provvedeva a cucinare in diversi modi. L’anguria rievocava le calde estati di Cremona, ma anche un fugace incontro ravvicinato con la bella e rotonda moglie di un sottufficiale, conosciuta nell’agosto del 1942. Ricordi gastronomici riguardavano anche altre donne, come la svedese Ingrid, sorprendentemente insaziabile a letto, che tra una prestazione e l’altra era solita andare in cucina e, con sorpresa dello strapazzato Tognazzi, bere a canna da un fiasco di Chianti di terz’ordine che per lei aveva l’effetto di un potente afrodisiaco.
Nella seconda parte, il vasto ricettario proposto da Ugo Tognazzi (circa sessanta ricette) comprende anche alcuni dei piatti preparati nelle serate conviviali con amici e colleghi (abituali frequentatori erano Paolo Villaggio e Mario Monicelli) che alla fine, implacabili e forse mossi piuttosto dal gusto della provocazione che non da giudizio critico, votavano in forma anonima e con poca indulgenza ogni singola pietanza, compreso quel maial tonné che, come aveva ricordato la sceneggiatrice Iaia Fiastri, risultò particolarmente difficile da digerire. In effetti, si tratta di piatti riccamente conditi, debitori di una cultura della cucina ‘grassa’ dove il burro, dosato con generosità, non mancava mai: Tognazzi ha sempre puntualizzato che, da buon cremonese, nei soffritti e nei condimenti lui stava dalla parte del burro e non dell’olio. Ma al di là dell’apporto calorico, è chiaro che l’appassionata esposizione delle sue ricette rappresentava un’estensione dell’estro artistico di Tognazzi, un prolungamento della sua carriera d’attore, così come nell’atto pratico la cucina era vissuta come un palcoscenico e la tavola corrispondeva alla platea che avrebbe gradito o meno la rappresentazione.
Nell’ultima sezione, infine, ritroviamo le ricette che nel film La grande abbuffata avevano accompagnato il simbolico, scandaloso itinerario autodistruttivo dei quattro protagonisti, sancendo un interessantissimo legame tra la figura dell’attore Tognazzi e le sue aspirazioni culinarie (rammentiamo che nel film il cuoco e ristoratore era interpretato proprio da Tognazzi). Tra i piatti ingurgitati senza sosta nel film di Ferreri, accompagnati dall’indicazione del numero esatto di sequenza, ricordiamo: le ostriche, la pissaladière provençale, il rognone bourguignonne,gli ossibuchi giganti, la torta Andrea (in mezzo al cui impasto Tognazzi copulava con il personaggio femminile Andrea, interpretata dall’attrice francese Andréa Ferréol), la bavarese di tette (altro esempio di binomio cibo – sesso). Le ricette del film sono precedute da considerazioni circa l’esperienza quasi surreale vissuta sul set. Alle sei del mattino lo chef cominciava a preparare il copione gastronomico della giornata e l’arrivo degli attori era punteggiato da odori: “anziché vedere con gli occhi le scene che avremmo girato, le vedevamo col naso. Annusavamo gli odori che si sprigionavano dalle cucine e sapevamo cosa ci aspettava”, racconta Tognazzi. Ma giorno dopo giorno, il clima di desolazione descritto nella pellicola finì curiosamente col pervadere anche il set, dietro le quinte, fino a rendere quei profumi che si sprigionavano dalla cucina sempre meno graditi ai protagonisti o addirittura nauseanti: a metà film, continua Tognazzi, “eravamo già in uno stato fisico e spirituale di disfacimento progressivo”.
A distanza di quasi cinquant’anni, la piacevole lettura del libro L’abbuffone (ristampato di recente da Avagliano Editore) ci aiuta a conoscere più da vicino l’altra vocazione dell’attore Ugo Tognazzi: quella di amante del buon cibo e chef dilettante, capace di dare ulteriore prova, anche nel suo lungo percorso culinario di autodidatta, di un’ironia e di doti di commediante già ampiamente dimostrate nel corso di una carriera artistica iniziata negli anni Quaranta e durata fino alla morte (Tognazzi scomparve a Roma il 27 ottobre del 1990).
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