In questa monumentale intervista, interamente a cura di Mario Gerosa, Biagio Proietti racconta le potenzialità e le intuizioni profetiche degli sceneggiati e degli originali televisivi di ieri di genere noir e fantastico.
“Ci è voluto Quentin Tarantino per sdoganare definitivamente e porre nella giusta luce, in una dimensione internazionale, tutto un importante comparto del cinema italiano, quello dei noir di genere degli anni Settanta e dei cosiddetti “poliziotteschi”, fino a qualche tempo fa appannaggio esclusivo di appassionati cultori e ricercatori sul campo, cui va reso il merito di un solerte lavoro filologico. Con la riscoperta nell’ambito del mainstream – e non solo in quello dei connaisseur della prima ora – è riemerso un genere, finalmente sprovincializzato, e si sono moltiplicati gli studi, che hanno messo in luce una serie di relazioni e di affinità elettive tra un certo cinema italiano dimenticato di ieri e il cinema internazionale di oggi.
Ora ci vorrebbe un’operazione simile che riportasse l’attenzione sugli sceneggiati e gli originali televisivi degli anni Settanta e dintorni, le grandi opere dell’età dell’oro della Rai, che vanta addirittura delle categorie a se stanti, tra cui quella fortunatissima che attinse a piene mani al patrimonio storico letterario del noir e del mistero, quello dei maestri indiscussi del genere. E’ assodato che si tratti di opere di grande valore e spessore culturale, ma il rischio è di inquadrare sceneggiati e originali televisivi italiani come un fenomeno locale, che ebbe altri importanti omologhi, per esempio in Francia. C’è il rischio di dare una connotazione geografica ristretta a tali opere, non cogliendone la grande forza pionieristica. Quei gioielli vintage, riscoperti, studiati e sviscerati in testi seminali, sono ancora in attesa di essere omaggiati di una dimensione internazionale, così come è capitato al nostro cinema di genere, giustamente apprezzato oltreoceano.
Non di rado questi lavori per la televisione di qualità ebbero la fortuna di giovarsi dell’estro di nuovi maestri, quali Biagio Proietti, uno dei nomi di riferimento di questa prolificissima corrente, distintosi per i suoi gialli catodici fortemente innovativi come per le sue riuscitissime incursioni nei territori del fantastico, da grande estimatore di Poe qual è.
Tra i protagonisti di una stagione irripetibile della televisione italiana, Biagio Proietti, autore di storie indimenticabili, sceneggiatore e regista, ha scritto e diretto moltissimi originali televisivi e sceneggiati, firmando successi come Dov’è Anna?, L’ultimo aereo per Venezia, Coralba, che hanno appassionato per anni milioni di spettatori. In parallelo ha lavorato per il cinema, come sceneggiatore e regista, prima di dedicarsi a tempo pieno all’attività di romanziere.
In questa lunga intervista Biagio Proietti analizza in profondità la natura noir e la vocazione al fantastico (ma non solo) di molti lavori presentati in televisione, suoi, ma anche quelli di tanti illustri colleghi che si cimentarono nel genere, con intuizioni estremamente attuali. Nelle sue risposte Proietti evidenzia per esempio gli schemi narrativi, estremamente in anticipo sui tempi. Basti pensare agli sceneggiati di Philo Vance con Giorgio Albertazzi, andati in onda nel lontano 1974, quasi cinquant’anni fa: l’impianto narrativo, calibrato come un perfetto meccanismo ad orologeria, prevede l’indicazione dei singoli giorni della settimana in cui si svolge l’indagine, scandendo così il tempo del racconto televisivo in una sequenza di interrogatori e testimonianze. Gli sceneggiatori, Biagio Proietti e Belisario Randone, e Marco Leto, regista dei tre episodi, concepirono una costruzione per “quadri” simile a quella adottata molti anni dopo nella serie americana Law & Order, dove una ferrea scansione delle giornate in cui si svolge la storia è parte integrante del plot.
Come in questo caso, capita che le intuizioni sulla sceneggiatura si intreccino quindi con la vena narrativa. E a guidarci sulle strade labirintiche del racconto televisivo d’autore è Biagio Proietti, che nelle sue risposte svela anche qualche segreto e trucco del mestiere. Un dialogo, quello con Mario Gerosa, autore di un monumentale saggio sull’attività di Proietti, da leggere come una masterclass sulla televisione d’autore dove la tv della memoria si intreccia inevitabilmente alla fiction di nuova generazione: intersezioni, rimandi, anticipazioni emergono e si delineano nelle risposte di Biagio Proietti, che ha vissuto quello straordinario momento in prima persona, da protagonista”.
Negli sceneggiati del periodo d’oro della Rai i contorni tra reale e immaginario appaiono labili, tutto si muove nell’ambito del possibile. Testimoniano tale tendenza alcuni episodi tuttora insuperati del Fascino dell’insolito (1980-1982) e del Filo e il labirinto (1979), in cui si punta a un’estremizzazione del fantastico nel quotidiano, senza mai uscire dai confini del verosimile. Raccontano questi delicati equilibri anche sceneggiati di culto come Ritratto di donna velata (1975) di Flaminio Bollini, Il segno del comando (1971) di Daniele D’Anza e Ho incontrato un’ombra (1974), scritto da te e diretto dallo stesso D’Anza. In tale contesto si possono ravvisare due importanti filoni: il noir del tempo perduto, giocato sullo sdoppiamento di personalità, sull’alchimia, la magia, il paranormale e la reincarnazione, e il noir contemporaneo, che rivisita il genere scavando tra le pieghe del mondo moderno, apparentemente asettico, semplice e rassicurante. E’ così?
Una domanda impegnativa perché hai subito inquadrato la sostanza del discorso. Il fantastico può caratterizzare del tutto un lavoro, facendone non solo lo spunto narrativo ma la sostanza stessa della storia (vedi Belfagor, 1965), o invece può essere uno dei tanti elementi, come i colori della tavolozza di un pittore, che lo scrittore e il regista possono avere in mano per descrivere una realtà che viene inquadrata, sviscerata, ricomposta attraverso due ottiche o modi di lettura. Così il fantastico non è una cornice o un momento di evasione, ha un valore fondamentale, al fine di insinuare nello spettatore il dubbio che la realtà non sia soltanto quella che vediamo. Dietro – o dentro, scegliete voi – esiste una realtà altrettanto forte e condizionante, anche se è difficile da vedere e da capire. Potrei dire, per assurdo, che ogni cosa reale ha il suo doppio, ogni cosa può essere capita o spiegata, attraverso due modi d’interpretazione, uno di carattere quasi fotografico, cioè si comprende solo quello che si vede, oppure si può e si deve andare oltre: ci possiamo fare domande, per tentare di entrare nella situazione che stiamo vivendo, in modo da vederne anche il lato oscuro, cioè l’altra faccia della luna o, come si dice in inglese, the dark side of the moon. Però ricordiamoci il famoso film di Antonioni, Blow-Up (1966), che nasce dal racconto Le bave del diavolo dello scrittore argentino Julio Cortázar, dove una fotografia ti rivela che nella stessa immagine ci sono due racconti, non una sola, se si guarda più profondamente, oltre la prima mera visione, che si limita a comprendere solo la superficie. Ciò che appare non sempre equivale al tutto: hai citato Il fascino dell’insolito e io subito cito La mezzatinta (1980) che ho sceneggiato e diretto, tratto da uno stupendo capolavoro di letteratura gotica di Montague R. James, nel quale un’incisione, una mezzatinta, nel corso di una notte, riesce a cambiare immagine e a raccontare una storia che forse è avvenuta, forse no. Il protagonista rischia di perdersi dietro il tentativo di capire, anzi, nella mia ultima inquadratura, finisce con il perdersi all’interno del quadro, si annulla per entrare nella realtà. Ma quale realtà?
Uno dei temi forti dello sceneggiato noir italiano è lo scambio d’identità, che corrisponde a una perdita di riferimenti anagrafici ma anche a un totale disorientamento esistenziale. Uno degli esempi più riusciti è Il figlio di due madri (1976), con Anna Maria Guarnieri nel ruolo di una giovane genitrice che ha perso il figlio e che pare ritrovarlo nel corso di una vicenda allucinata in cui il bambino si sdoppia, pensando di essere un altro. Questo tema del doppio, che qui viene svolto in maniera esemplare da Ottavio Spadaro, cimentatosi con un soggetto di Massimo Bontempelli, richiama un tema classico del noir, che ha uno dei suoi massimi esercizi di stile nello Specchio scuro (1946) di Siodmak, con Olivia de Havilland. Un tema simile ritorna in Castigo (1977), dove Eleonora Giorgi, algida e eterea, si sdoppia per dar vita a una donna dall’identità indecifrabile, dalla doppia dimensione esistenziale, un po’ come succede a Carla Gravina nel ruolo di Lucia nel Segno del comando (1971).
Parlando di crisi d’identità e di sdoppiamento mi viene in mente subito La mia vita con Daniela (1976), scritto da me e da Diana Crispo (che abbiamo poi sviluppato sotto forma di romanzo in Chiunque io sia, 2012) dove ci son entrambi i temi da te citati e anche quello della reincarnazione: una donna pensa di chiamarsi Bianca e le dimostrano che invece si chiama Daniela. Le storie delle due donne sono diverse anche per l’età della donna e quindi dell’epoca nella quale dovrebbe essere vissuta. Il fascino di questa storia è che nella ricerca si scopre che la donna a volte è una, a volte sembra essere l’altra: quale la spiegazione? In realtà ne viene avanzata una razionale, concreta, basata su criteri psicologici, quindi scientifici, ma un attimo dopo lei, parlando a se stessa, quindi in realtà ai noi spettatori, dice cose completamente opposte. Come se avessimo assistito in realtà a un fenomeno di reincarnazione o meglio di impossessamento di una personalità.
Il tema dello sdoppiamento può dar vita anche ad altre declinazioni: Il figlio di due madri è anche un esempio di “noir sociale”, racconta il dramma di una madre privata del figlio. Un altro esempio magistrale in questo senso è I figli di Medea (1959) di Anton Giulio Majano, una prefigurazione del reality di finzione in cui Enrico Maria Salerno fa finta di interpretare se stesso e impersona un padre che sottrae il figlio alla moglie, interpretata da Alida Valli, la quale viene messa al corrente del dramma in diretta, mentre recita in tv davanti a milioni di spettatori.
Qualcosa di simile si ritrova anche nell’episodio Maternità (1967) girato da Eriprando Visconti per la serie Vivere insieme, dove si racconta in maniera sofferta il percorso dell’adozione. Pensi si possa parlare di “noir sociale”?
Tutte le mie opere appartenenti al genere mystery, in tutte le sue molteplici suddivisioni, hanno sempre un obiettivo: raccontare la realtà che ci circonda, la società nella quale viviamo dove ogni storia cerca di comprendere le nostra difficoltà a vivere una vita serena. Ho sempre detto che qualunque sia il genere delle nostre opere quello è soltanto uno strumento, un mezzo tecnico per arrivare alla scopo fondamentale di ogni lavoro: aiutarci ad affrontare le tante difficoltà, aiutarci a capire le persone che ci vivono accanto, che amiamo o odiamo. A volte ci riusciamo, a volte no, ma l’intento sociale, inteso in questo senso, può essere messo in crisi soltanto da quelli, purtroppo sono ancora tanti, che considerano questo genere roba di serie B. Gente che non ha capito – o non vuole capire – che questo genere ha prodotto capolavori assoluti in ogni campo, cinema televisione letteratura. Purtroppo la spocchia e la cecità intellettuali sono due brutte bestie, molto diffuse e difficili da far tacere.
Quando ha messo in scena thriller psicologici televisivi di gusto noir, spesso la tv ha fatto riferimento al tema della reincarnazione. In vari sceneggiati, tra cui Castigo (1977) e Il fauno di marmo (1977), si parla di questo tema. Nel Fauno di marmo si parla addirittura di “reincarnazione collettiva”. Il giovane Donatello, uno dei protagonisti, dice “E’ incredibile avere tutti assieme la sensazione di essere al tempo stesso sullo schermo e in platea”. E Kenyon, lo scultore impersonato da Orso Maria Guerrini, aggiunge “Soffriamo di una crisi allucinatoria comune”. Anche nei Racconti fantastici di Poe si parla di reincarnazione. Era un fenomeno di moda?
In parte sì, ma, in molti casi, se affronti un certo tipo di temi, devi per forza parlare anche dell’ipotesi reincarnazione. A me è capitato con La mia vita con Daniela (1976), però se fai una serie sui racconti da Edgar Allan Poe non puoi non parlare di reincarnazione, da Ligeia a Morella. Noi, nel nostro Racconti fantastici (1979), parlo di Daniele D’Anza e di me, abbiamo imperniato sulla reincarnazione tutto l’episodio avvenuto in casa Usher molti anni prima, ambientandolo nel mondo del cinema agli albori, della nascita del divismo, nel culto di alcuni divi di allora che sono scomparsi realmente ma nella memoria sono vivi, quasi una forma perenne di reincarnazione. Penso a Greta Garbo: poche persone hanno visto suoi film, però il mito Garbo continua a esistere a distanza di anni. Io ho avuto la fortuna, quando ero molto giovane, di essere al festival del cinema di Venezia, dove, oltre alla sezione dei film in concorso, la cosa più importante era la retrospettiva: quell’anno, per mia fortuna, era Gli inizi del cinema sonoro a Hollywood, dove ho avuto modo di scoprire – e con me molti storici del cinema- Freaks (1932) di Tod Browning, che fino allora era una citazione su qualche libro di saggi sul periodo, e soprattutto ho visto Anna Christie (1930) dal dramma di Eugene O’ Neill, lanciato con lo slogan più bello che sia stato inventato: Garbo talks, la Garbo parla. Cambiando nome, noi lo abbiano usato per la nostra diva di fantasia con ottimi risultati. Quello è stato uno degli episodi che è piaciuto di più. Una piacevole sorpresa fu allora il successo notevole che ebbe tutta la serie e confesso che non lo avevamo previsto, anche se con i dirigenti televisivi, più scettici di noi, abbiamo dovuto lottare per farli. Altra conseguenza positiva del successo televisivo è stato che un produttore importante mi chiamò per fare un film da Edgar Allan Poe, così nacque Black Cat (1981) che poi fu diretto dal grande Lucio Fulci ed ebbe successo in tutto il mondo. Io credo che sia un grande merito se con i nostri spettacoli induciamo qualcuno in tentazione, dandogli il suggerimento di leggere un grande scrittore come Poe, e ricordo con piacere che quando feci l’ultimo incubo di Edgar Allan Poe, dove tentati di descrivere la notte in cui lo scrittore morì, nell’ospedale di Baltimora, e immaginai che fosse assalito dai ricordi dei personaggi che lui aveva inventato, i suoi unici figli. Uno spettatore, il figlio vero e decenne, di nostri amici si entusiasmò tanto che, pochi giorni dopo, chiese per il suo compleanno come regalo l’acquisto di un volume di racconti del grande Edgardo Poe, come è scritto in un volume italiano del 1920 che un caro amico mi ha regalato. La italianizzazione dei nomi era già all’epoca un sintomo premonitore di cosa stava per accadere.
La reincarnazione a volte si muta in un gusto necrofilo, per esempio nei Racconti fantastici di Poe, ma anche in Castigo (1977), dove il senso di morte, di fine imminente, è il motivo conduttore dominante. In Castigo Luisa sembra muovere i fili di un pericoloso triangolo. “E’ un gioco morboso”, come si dice nello sceneggiato. Luisa si è reincarnata nel corpo di Hermione (o così pare) per destabilizzare la vita di chi l’ha rifiutata. E mentre la morta, o presunta tale, si prende la sua vendetta, i vivi pensano di potersi consolare con amori proibiti e necrofili.
In alcuni casi si va anche oltre il discorso romantico della reincarnazione e si punta verso atmosfere più macabre, con il noir che rischia di trascolorare nell’horror. Uno dei casi più significativi e crudi è Gamma (1975), lo sceneggiato di Salvatore Nocita da un soggetto di Fabrizio Trecca, in cui il cervello di un criminale giustiziato viene trapiantato nella testa di un’altra persona. Un discorso che ricorda anche il film cult Le mani dell’altro (1924) di Robert Wiene.
Ho lavorato a lungo su un altro soggetto di Trecca, che era un medico, un chirurgo. Era una storia in cui si arrivava a creare un essere a metà umano e metà robot: il soggetto era interessante, ne scrissi una puntata poi mi fermai (per motivi ormai inutili da spiegare) e si fermò anche il progetto. Comunque, non sono molto entusiasta di queste innovazioni, anche se sono uno sperimentatore nato e un visionario felice. Che non mi fanno impazzire lo posso dire tranquillamente. Tutti i miei amici sanno che io non amo molto il genere horror, quando questo diventa sinonimo di sangue, di budella e di frattaglie. Confesso, chiudo gli occhi quando sullo schermo ci sono scene di bassa macelleria e cose ributtanti, però mi batterei sempre per la libertà d’inventare e di creare. Quindi evviva anche il sangue…
I Racconti fantastici (1979), che hai realizzato con D’Anza, è un capolavoro noir, con una forte dimensione psicologica da thriller della mente. Il versante noir era già presente in Poe oppure l’avete sviluppato voi?
Poe è tutto versante noir secondo me, anche perché in questo comprendo soprattutto la capacità di scandagliare l’animo umano in tutte le sue componenti, e le più affascinanti sono quelle nere, quelle che è difficile vedere. Ma Poe, oltre che nero, è romantico, è un pazzo visionario, sicuramente non felice, è uno scrittore capace di evocare persone e atmosfere con pochi tratti, avendo una prosa asciutta, anche se a volte ha le complessità e le vertigini di una scrittura gotica, come le tante chiese di quello stile, con le guglie che cercano di arrivare al cielo. Per raggiungerlo e toccarlo? O per aggredirlo e bucarlo con le punte delle sue guglie? A ogni lettore il fascino di avere una risposta diversa, tutte possibili. Io sono molto soddisfatto di Racconti fantastici perché abbiamo avuto coraggio e crediamo che Poe sia uno scrittore sempre moderni, perché è un gigante, le sue storie reggono a ogni trasformazione di epoca e di società perché le angosce che affronta e che descrive sono quelle di sempre. Chi siamo? dove andiamo? In quale voragine desideriamo precipitare per il piacere di sprofondare nel vuoto degli abissi?
Una delle grandi novità dei Racconti fantastici che hai realizzato per la tv è legata a un’idea di noir totalmente contemporaneo. Tu e D’Anza vi siete affrancati quasi totalmente dai riferimenti storici che fanno colore, spesso presenti negli sceneggiati del mistero, quali Il segno del comando (1971), L’amaro caso della baronessa di Carini (1975) e Il fauno di marmo (1977), e avete creato una narrazione più asciutta, calata in un presente denso di ambiguità ma non folkloristico.
A noi interessava il mistero, ma eravamo felici quando riuscivamo a renderlo meno manieristico o folkloristico, come giustamente lo hai definito tu. Anche se avevamo età diverse, Daniele e io eravamo gemelli nel pretendere dalle nostre storie un linguaggio asciutto, un tono primo di maestosità e di inutili messaggi: noi abbiamo sempre voluto raccontare storie, non fare prediche. E poi il buon gusto e l’eleganza non te lo leva mai nessuno, può capitare che qualche ciambella venga più buona di altre, ma nessuna è da buttare.
Lo stesso discorso del Poe televisivo realizzato con D’Anza vale per i Philo Vance diretti da Marco Leto, andati in onda nel 1974. Hai introdotto un elemento noir che forse in Van Dine non c’era o almeno non era così evidente?
Il lavoro grosso che ho fatto, io personalmente, potrei dire anche contro tutti all’inizio, poi invece con l’accordo, soprattutto del regista Marco Leto, è stato quello di umanizzare il protagonista: non a caso i più esperti estimatori di Vance non mi hanno perdonato i tanti cambi, perché sulla carta lui è uno snob antipatico, misogino, molto elitario ma sicuramente affascinante, forse proprio per i suoi difetti. Quando porti in televisione un eroe simile rischi molto se non lo rendi anche simpatico, pur se gli lasci questo carattere astrale, quasi un personaggi che appartiene a un altro mondo, che Giorgio Albertazzi ottimamente è riuscito a conferirgli. Ne La canarina assassinata sono arrivato addirittura a sfiorare l’ipotesi che fra gli spasimanti, chiamiamoli così, della bellissima star del varietà ci possa essere stato anche lui, temo che Van Dine si sia agitato molto nella sua lussuosa tomba di famiglia. Ne La fine dei Green ho invece inserito l’aspetto noir che giustamente indichi tu, e ti ringrazio, perché pochi critici a suo tempo ci fecero caso, o quanto meno non pensarono di sottolineare questo particolare côté. Leggendolo, il romanzo mi ha fatto venire in mente il capolavoro di Hitchcock, Psycho (1960), e ho pensato di leggere tutta la storia in questa chiave, così potevamo essere fedeli al romanzo, ma nello stesso tempo gli cambiava prospettiva, dando alle lotte fra i diversi membri della famiglia un carattere funereo, un tono da sacrificio umano, dovuto alla mente diabolica di una persona, apparentemente normale. Questa prospettiva dava profondità alla storia, con un finale che era una citazione molto esplicita, ma è sempre gusto farlo quando la citazione è quella giusta. In questo caso lo era, Così come era giusta l’idea di Albertazzi di iniziare la serie con lui che andava in sala trucco, poi in sartoria, facendo assistere così in modo esplicito alla trasformazione dell’attore nel personaggio. Una idea buona per me, perché così si eliminava di primo acchito il pericolo di antipatia per gli inevitabili atteggiamenti snob del personaggio e per il pubblico si facilitava l’identificazione tra l’attore e il personaggio, Ripeto, fu una idea sua ma un bravo sceneggiatore deve essere molto abile a prendere quello che gli altri dicono o suggeriscono, quello che conta è il risultato, poco importa di chi sia l’idea, tanto stiamo tutti lavorando per la stessa cosa: avere successo.
Tra i tuoi noir televisivi, trovo che Miriam (1980), della serie Il fascino dell’insolito, sia uno dei più riusciti. E’ tutto un susseguirsi di sequenze destabilizzanti, dove il confronto tra l’anziana signora e la bambina offre una dimensione agghiacciante e surreale di un noir diacronico, in cui coesistono tempi diversi. E’ un racconto bergmaniano, che scandaglia i misteri della psiche. Secondo te il noir è un fatto mentale?
Questa è la più bella domanda che mi abbiano fatto, in tanti anni. Il noir per me è solo un fatto mentale, io trovo che Miriam, il racconto di Truman Capote, sia un capolavoro in assoluto e in particolare la dimostrazione di come si costruisce un noir senza sangue, senza delitti, senza polizia. Devo dare merito a Diana che tanti anni fa quando ci siamo incontrati, mi ha fatto conoscere lo scrittore Truman Capote. Subito ci innamorammo di Miriam, lo proponemmo anche in radio invano e poi finalmente lo abbiamo fatto, in quella meravigliosa nicchia che è stata Il fascino dell’insolito. Non è stato facile trasportare un simile racconto in immagini, perché non c’è una trama vera e propria e ci voleva coraggio a resistere alla tentazione di sovrapporre e aggiungere fatti che però non sarebbero stati giusti. Miriam è giusto così, con un rimo lento, in un bianco e nero che nasce dai quadri di Hopper e dall’amore per il cinema americano anni Trenta e Quaranta, accompagnato dalla musica degli anni Quaranta, una musica dolce, nostalgica, evocativa con le voci dei Mills Brothers e quella di Frank Sinatra giovane, fino a racchiudersi nel nocciolo vero del racconto letterario e televisivo, con l’incontro scontro tra Miriam anziana e Miriam bambina, che non sono altro che la proiezione l’una dell’altra. Forse anche in questo caso si potrebbe parlare di reincarnazione, se non fosse per il fatto che la bambina non è reale, è figlia di una solitudine disperata e mai dichiarata. Inoltre la bambina non è innocente, come nessuno di noi in realtà è innocente, difatti per colpa sua l’unico compagno di vita della vecchia Miriam, il cardellino, smette di cantare e di vivere, quando la bambina decide di ucciderlo, o meglio di provocarne in modo fantastico la morte, per avere il dominio assoluto. Non ti sembra la trama perfetta di un thriller? Solo che scava dentro l’anima delle persone, non dentro la meccanica delle cose. Mi fa piacere che un collega, Stefano Di Marino, nel recensire un romanzo scritto da Diana e da me, Chiunque io sia (2012), derivato da un originale televisivo del 1976, La mia vita con Daniela, lo definisca un thriller dell’anima. Mi piace citarla questa definizione perché si addice a molte delle cose nostre, che scavano dentro i meandri della psiche umana, strato per strato, alla ricerca di un quid che non si troverà mai. Perché non c’è un assassino da scoprire ma una persona, uomo o donna, che avrebbe anche voglia di denudarsi completamente. Ma, se fisicamente è possibile e anche facile, psicologicamente è terribilmente difficile. La cosa più ardua da fare è proprio conoscere se stesso e avere il coraggio di spogliarsi, di rivelarsi davanti agli altri, che si trasformano in una sorta di specchio. E forse lo specchio della propria anima è una bambina di dieci anni, vestita di seta bianca, biondi i capelli, bianca la pelle: una creatura di favola, che non ha proprio il sapore delle favole. Forse potrebbe essere anche la morte. Che arriva sulle note di un pezzo celebre di Glenn Miller e della sua orchestra: Moonlight serenade, che da noi in Europa arrivò con il significato felice e liberatorio della fine della guerra.
Quello stesso senso di velata allucinazione, di sonno da svegli, si coglie anche nel Sognatore, e in Sono già stato qui, della serie Il filo e il labirinto, entrambi del 1979. Quali sono le differenze sostanziali tra quei lavori e, per esempio, Coralba (1970)?
Coralba è stato il primo lavoro che ho scritto per la televisione. La richiesta era di avere un giallo alla Durbridge che inchiodasse sulle sedie o sui divani gli spettatori di molti Paesi, perché ricordo che Coralba fu una delle prime produzioni in appalto e realizzato in coproduzione con Germania e Francia. In realtà Coralba alla fine è un giallo classico ma con molte novità, ad esempio il finale che non dico. I temi che io amo li ho messi tutti già in questo primo copione che nasceva da un mio soggetto talmente ampio da essere considerato un romanzo inedito e poi ampliati in sceneggiatura con Daniele D’Anza, con il quale trovai subito un accordo felice che poi continuò per molti anni fino alla sua morte. Queste novità sono state le basi sulle quali ho lavorato nello sviluppo delle mie tematiche, per arrivare a una divisione molto schematica delle mie opere: da un lato il filone realistico (Coralba, 1970, Dov’è Anna?, 1976 Ho incontrato un’ombra, 1974) dall’altro quello dove il coté fantastico e misterioso (preferirei dire misterico) prende il sopravvento (La mia vita con Daniela (1976), tutti gli episodi di Il filo e il labirinto (1979) e quelli scritti da me per Il fascino dell’insolito (1980-1982), Racconti fantastici (1979) dall’immenso Edgar Allan Poe), dove la sostanza del racconto affronta il tema non realistico che viene analizzato e affrontato con toni realistici, considerandolo non un fenomeno da baraccone ma una cosa strana che potrebbe avvenire. Il senso di allucinazione di cui parli è uno strumento utile per acchiappare lo spettatore e portarlo nel vortice di una storia che potrebbe sembrare assurda ma invece potrebbe accadere oggi stesso a ognuno di noi. Così l’allucinazione diventa come una nebbia: ti avvolge ma alla fine può anche alzarsi e lasciare vedere le cose nel loro contorno reale e a volte lasciare vedere anche il sole.
A volte i noir televisivi non nascono da noir veri e propri, derivano da qualcos’altro. Insuperabili le versioni di D’Anza dei romanzi di Dürrenmatt, con Paolo Stoppa con il suo sguardo di lucido sgomento e Adolfo Celi, impegnato a recitare il sadico. Anche Majano è stato un grande regista di noir. Ha trasformato in noir romanzi che non avevano immediatamente questa valenza, per esempio Jane Eyre (1957), con Ilaria Occhini preda di una dimora tenebrosa e Una tragedia americana (1962), con Warner Bentivegna che vive un’esistenza spiritata invaghito di una donna impossibile. In particolare ha sviscerato e messo in luce l’aspetto noir di romanzi che non vengono ascritti direttamente a questo genere. Alla stessa stregua, consideri la Madame Bovary (1978) che hai realizzato con D’Anza un noir?
La tua domanda nasce da un errore, non tuo ma generale, molto diffuso: considerare il noir in base alla struttura narrativa quando invece, almeno per me, il noir è uno stile, un modo di affrontare qualsiasi tipo di storia, esagerando si potrebbe definire un’atmosfera nella quale si può inserire anche la Bibbia. Hai ragione a definire così la nostra versione di Madame Bovary, e non solo perché ambientata in un tribunale, dove non si sa se l’imputato sarà considerato innocente o colpevole. La storia di Emma ha tinte nere se pensiamo che finisce con il suo suicidio. Vorrei insistere in quanto ho già detto, nel noir c’è un forte lato romantico, quasi di amore folle. Pensiamo ai romanzi di Cornell Woolrich, alla donna che uccide uno per uno i colpevoli della morte di suo marito il giorno stesso del matrimonio. Hai ragione a inserire Majano, che è più autore noir in Jane Eyre (1957), in Castigo (1977), e anche in David Copperfield (1965) o in E le stelle stanno a guardare (1971), che nei gialli su Sheridan.
A proposito della serie delle “Donne” del Tenente Sheridan, e in particolare nella Donna di cuori (1969), diretto da çeonardo Cortese, si sente l’influenza del romanzo americano hard boiled, della Scuola dei duri. Anche in altri casi, come Romeo Bar (1958) e La sera del sabato (1966) di Majano, si guarda agli esempi classici del cinema americano, cosa che succede anche in Una pistola in vendita (1970) di Vittorio Cottafavi, che rielabora alcuni meccanismi cinematografici, adattandoli alla televisione. E’ stato più soddisfacente il noir italiano all’americana o quello più tipicamente nostrano?
Io sono un ammiratore sfegatato di Dashiell Hammett il re dell’hard boiled americano e per questo mi considero un esperto e rispondo alla tua domanda. Dicono che non amo l’hard boiled italiano, quando si è messo a scimmiottare quello americano e a copiarne i meccanismi, senza condividere l’anima. La forza dei romanzi di Hammett è l’analisi spietata della società americana. Se questo meccanismo lo porti a una realtà diversa, come quella italiana, diventa un gioco che ha un sapore falso. Ho già detto, in altri contesti, quanto sia stata dura e lunga la lotta da parte di molti autori italiani per portare il giallo nella realtà italiana, con polizia italiana, con storie nate da fatti reali o comunque realistici, con storie che sembrassero lo specchio della società reale. È stato un cammino duro ma arrivare a Dov’è Anna? ha un significato, per aver rotto una barriera e aperto la strada al giallo italiano letterario televisivo e cinematografico. Ce n’è voluto di tempo perché ci si accorgesse che già da anni uno scrittore come Scerbanenco scriveva storie stupende in Italia. Io in un articolo di cui sono orgoglioso ho parlato della speranza di un contagio Scerbanenco, e mi sono sempre dichiarato uno che per fortuna è stato contagiato da lui. Mi spiace non aver lavorato mai con Majano, forse avrei potuto tentato di provare strade che per lui erano congeniali anche se si sviluppano di più su altri versanti, storici o ambientali. Scusa ma fra i noir di Majano io metterei anche L’eredità della priora (1980). Ero a Napoli a girare La mezzatinta (1980) e lui era nell’altro studio e ho saputo apprezzare il suo modo di girare, noir allo stato puro.
Nel noir americano ci sono soprattutto il tema dell’inganno e delle atmosfere torbide. Nel noir televisivo italiano questi temi ci sono, ma spesso nella vicenda ha un peso rilevante anche la storia, intesa come il senso del passato, il ripetersi di eventi. Succede nell’Amaro caso della baronessa di Carini (1975), nel Segno del comando (1971), e in Ritratto di donna velata (1975), con Elisa/Daria Nicolodi nella villa del conte Certaldo/Mico Cundari.
I temi noir prendono vita se sono inseriti nella realtà sociale e storica dell’Italia, che ha caratteri e vicende completamente diverse dalla società americana. Nelle storie migliori del noir italiano, quelle che hai citato, la storia diventa un elemento cardine del racconto lo condizione e lo determina. Inoltre quello che stiamo dicendo sradica totalmente i giudizi negativi di certi critici snob sul genere noir, considerandolo solo storia di gangster e di horror. Alzi la mano chi non si è innamorato della Gravina fantasma in il segno del comando e non abbia fatto un giro nelle strade di Trastevere con la speranza d’incontrarla.
Negli sceneggiati italiani del mistero e del fantastico, ma anche in quelli squisitamente noir, ricorre spesso l’elemento della casa pericolosa e inospitale. Molti sceneggiatori e registi sono anche potenziali architetti, che hanno progettato un gran numero di dimore piene di insidie. Nell’Enigma delle due sorelle (1979), diretto da Mario Foglietti e basato su un soggetto di Fabio Pittorru, ci sono almeno tre interni pericolosi, tra gli appartamenti romani, la villa sul lago, tappezzata di dipinti di famiglia, e la clinica per malati di mente. Tu sei uno specialista di case del mistero, forse lo scrittore che ne ha inventate di più. All’interno dei tuoi soggetti c’è quasi sempre un ideale progetto di una dimora determinante ai fini della narrazione. Palazzi storici, come Casa Usher, ma anche ville marcatamente contemporanee, come quella di Dussart in Ho incontrato un’ombra. Trovo affascinante questa capacità di legare il mistero e la suspense a una casa minimalista e di design. E’ un’idea che si ritrova anche nei film di Dario Argento, un altro maestro che ha saputo legare brivido e décor asettici e moderni. Basti pensare alla galleria d’arte dell’Uccello dalle piume di cristallo (1970), o alla villa in cemento armato di Tenebre (1982). Siamo lontani dai classici interni sovraccarichi descritti da Walter Benjamin, che diceva che tra mille orpelli e pesanti velluti si annidavano potenziali delitti.
Nel noir c’è sempre stata una correlazione fra storia e ambiente, i racconti gotici richiedevano sempre antichi castelli e dimore particolari, fantasmi e spiriti potessero muoversi nel posto giusto. Molti autori italiani hanno seguito questa piccola regola, a cominciare da me quando ho scritto il film L’assassino ha riservato nove poltrone (1974), che si svolge tutto nello splendido teatro antico di Fabriano, con palchi, sotterranei, corridoi lunghi e tenebrosi. Però in Dietro la tenda scura, scritto da Crispo e da Proietti per la serie Il filo e il labirinto (1979), un fantasma infesta una casa non solo moderna ma normale, di quelle che abitiamo noi stessi, gente comune. Una volta per il noir si pretendeva una ambientazione tradizionale, di nebbia e guglie, ora, anche se fatte di lucido acciaio e di freddo vetro, le case moderne possono essere luoghi giusti, perché ripeto quello che ho detto molte volte in questo nostro dialogo: il noir è soprattutto un luogo dell’animo o dell’anima, lascio libera scelta.
Le tue case da noir sono molto moderne. In Ho incontrato un’ombra (1974) ci sono quattro residenze diverse, ciascuna con una propria personalità ben precisa; la casa ultramoderna e razionalista di Philippe Dussart a Ginevra; la casa tradizionale di Catherine Jobert a Gstaad, l’appartamento di Buache, il ricettatore, colpito dalla “maledizione dell’orchidea”, che vive in una casa-serra surriscaldata, con stufe elettriche e camino perennemente accesi; la magione in cui abita con i genitori Silvia Predal, che è l’ex villa Castelli di Stresa.
A dimostrazione di quanto detto nella precedente risposta, io credo che la freddezza delle case moderna (che io amo molto) sia l’espressione visiva di quello che una volta si definiva con un termine passato di moda: il senso di alienazione. Però quando abbiamo bisogno di un posto particolare per definire un finale triste solitario y final, come direbbe il grande Soriano, ci serviamo della villa di Stresa che ha un‘aria cupa, maestosamente antica, sembra visivamente, pur nella sua bellezza, la prigione nella quale il nostro protagonista vuole rinchiudersi per sua scelta. A tale proposito, quando D’Anza doveva girare il finale e stava a Stresa, perché il Lago Maggiore doveva sembrare il lago di Ginevra, e lì aveva trovato la villa dove Silvia si nascondeva con i suoi genitori, aveva qualche dubbio sul finale e mi chiese di andare da lui. Ci andai, parlammo, mi portò a vedere la villa e insieme decidemmo la scena finale: senza una parola, un lungo carrello indietro ad allontanarci dal protagonista, che diventa piccolo nella vastità lugubre della casa svuotata dai mobili, con le tracce evidenti di una fuga senza speranza, e sempre più si capisce che lui resterà prigioniero di quella casa e di quello che significa. Prigioniero forse per tutta la vita. Un finale da brividi, a mio avviso, Questo aneddoto serve a dire che a volte è l’ambiente a suggerirci le soluzioni, perché in televisione e in cinema sono le immagini quelle che hanno più forza. A questo proposito, ricordo anche il finale di La mezzatinta (1980), dove il protagonista si annulla nella villa reale e nel suo doppio: la mezzatinta che la riproduce perfettamente.
Nei noir italiani ci sono degli attori ricorrenti, dei veri e propri volti da noir televisivo. Penso a Ugo Pagliai del Segno del comando, ma anche a Laura Belli (Ho incontrato un’ombra, 1974, Castigo, 1977, L’enigma delle due sorelle, 1979), a Mico Cundari e a Paolo Stoppa, giusto per citarne qualcuno. Un posto d’onore spetta poi a Corrado Gaipa, che anche in ruoli minori ha dato vita a interpretazioni memorabili, per esempio a Bouache, il personaggio che soffre della maledizione dell’orchidea in Ho incontrato un’ombra, un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Cornell Woolrich. Il fatto di riproporre una serie di volti da noir fa parte del gioco?
Ogni regista ha un gruppo di attori amati e fidati che si porta dietro, questa la prima ragione però tu hai citato attori che hanno lavorato con registi diversi e questo ha un’altra spiegazione: per prima cosa la bravura di coloro che hai citato, poi anche l’identificazione che il pubblico fa di questi attori con i ruoli che di solito hanno, quindi il regista si basa su questa identificazione per facilitare il rapporto pubblico-personaggio. Non sempre queste cose sono utili ma in genere le cose vanno bene se gli attori sono bravi e quelli che hai citato lo sono. In altri casi a mio avviso ci sono stati errori di sopravvalutazione di alcuni attori che poi sono scomparsi. Alla fine il merito vince, non sempre ma quasi sempre. Io almeno lo spero.
Un ruolo fondamentale è giocato anche dalle donne fatali. Succede anche in qualsiasi altro tipo di noir, ma in questo caso si tratta spesso di donne dalle molteplici identità, come Marina Malfatti nel Fauno di marmo (1977), e in Malombra (1974), Delia Boccardo nell’Enigma delle due sorelle (1979), o Daria Nicolodi in Ritratto di donna velata (1975), che dice “Sono inseguita dalla mia ombra, come tutti”. Com’è cambiata negli anni la figura della femme fate da teleromanzo noir? Le donne misteriose degli sceneggiati si ispiravano in qualche modo a quelle del cinema?
Io credo di sì, la femme fatale è la figlia o la sorella della dark lady del cinema americano: sono belle, tenebrose, misteriose, enigmatiche e terribilmente affascinanti. Ma anche molto pericolose, lo si capisce subito, soltanto il protagonista non se ne rende conto oppure quando lo fa è già troppo tardi. Ma molti personaggi maschili sono pronti a morire pur di avere un incontro passionale con queste donne, che, oltre a essere belle, sono cariche di mistero e a noi esseri umani il mistero piace. Come ha scritto in modo meraviglioso Edgar Allan Poe, gli esseri umani sono sempre attratti, come una perversione, da un precipizio, da una voragine, da un vortice e sono pronti a sprofondare negli abissi, persino quelli dell’inferno.
I territori del noir si estendono anche alla tv dei ragazzi. In vari sceneggiati apparentemente lontani da questo genere si ritrovano invece chiari elementi noir, per esempio ne Le avventure di Ciuffettino (1969), ricco di atmosfere surreali e inquietanti, e nel Pinocchio (1972) di Comencini. Hai mai pensato di creare una storia noir in un contesto ludico?
Che cosa è il contesto ludico? Le favole che noi raccontiamo ai bambini sono le storie più noir che abbia mai letto o visto? Dentro ci sono orrori, morti, assassini dai denti aguzzi, bambine innocenti che sono pronte a uccidere … io ai miei nipoti quando erano piccoli raccontavo storie divertenti con protagonista un fantomatico commissario Pizzaballa, scemo, tormentato da una moglie molto brutta … loro si divertivano anche perché io recitavo le varie parti. Però non ho mai pensato di scrivere storie per la tv dei ragazzi, forse perché non appartengo alla moltitudine di fan di La nonna del Corsaro nero (1961-1966), invece ero da giovane grande amante dei romanzi di Salgari e ho continuato a esserlo anche quando ho sceneggiato il ciclo del Corsaro per una collana di audiocassette che poi non sono uscite. Io però mi sono divertito a scriverle e a realizzarle con le voci dei più grandi doppiatori degli anni ‘80. A volte le risento e dono felice di averle fatte, anche questa è una soddisfazione.
Spesso hai giocato con le contaminazioni tra i generi. Per esempio, Ho incontrato un’ombra (1974) è un noir ma anche una storia d’amore. Come funzionano queste sinergie?
La vita è costituita da momenti diversi, di gioia o di paura, a volte nello stesso momento, non c’è qualcuno che sceglie le distinzioni, le alterna. Se racconti una storia anche noir dovresti tenere in considerazione che tutto può e, anzi deve continuare come succede nella vita, l’idea di Ho incontrato un ombra è che il mistero l’inconsueto il non comprensibile ti può travolgere anche se tu sei appena coinvolto in una storia d’amore. Spesso l’esigenza di catalogare di distinguere di definire l’appartenenza di una storia a un genere sia fondamentale ma invece è semplicemente errata: se stai raccontando una storia realistica devi alternare i momenti di paura a quelli di amore di passione e anche a parentesi divertenti perché la vita è sempre un cocktail di emozioni diverse.
Tra le sperimentazioni, c’è anche il noir come docudrama. Un esempio è il Dossier Mata Hari (1967), di Mario Landi, che dal 1964 al 1972 ha sottolineato molto bene le atmosfere noir del Maigret di Simenon. E’ un altro modo di raccontare il noir, dove la concezione narrativa e stilistica influisce anche sulla caratterizzazione dei personaggi.
Integro la tua domanda citando altre opere che possono essere assimilate a Mata Hari che comunque è stato un capostipite, e penso alla serie che cominciava con Accadde e poi seguiva il nome di una città, con storie che riguardavano fatti criminosi dallo spionaggio alla clamorosa truffa protagonista di Accadde a Lisbona (1974) del nostro amico Daniele D’Anza fino a Accadde ad Ankara -Operazione Cicero (1979) e così via. Filoni che nascevano da una esigenza che regnava sovrana allora nella Rai: il carattere pedagogico, inteso nel senso ampio di cercare negli sceneggiati di far conoscere la storia, sia quella importante sia quella sotterranea dello spionaggio, oppure affrontare i temi problematici della nostra vita, penso alla lunghissima serie Vivere insieme (1962-1970), dove oltre tutto si sono fatti le ossa molti registi importanti. Tutte fiction che adesso possono essere definite docudrama, tanto la sostanza non cambia: la Rai ha avuto allora e nei decenni successivi una funzione culturale molto forte che si esplicava, oltre ai programmi specifici, nella cosiddetta area di successo: lo sceneggiato. E lo testimonia anche la mia attività.
In molti teleromanzi si coglie una fine cultura da cinefili. I registi e gli sceneggiatori conoscono bene la tradizione del cinema di quel genere e gli rendono omaggi espliciti. Nell’episodio L’albergo delle tre rose (1974), del Commissario de Vincenzi c’è un bellissimo flashback di classico gusto espressionista, nella più pura tradizione del cinema noir. Sempre il flashback è protagonista in Romeo Bar (1958), dove le difficili notti di Ubaldo Lay sono tormentate da incubi in cui il ricordo è contaminato dall’immaginazione. Quanto peso ha il flashback nella costruzione di un noir?
Fondamentale in genere, nello specifico dipende dall’abilità dell’autore di saperlo usare nel senso giusto e gli esempi che mi hai citato mi sembrano tali, anche se al momento non li ricordo. Cito l’uso che abbiamo fatto noi dei flashback in Dov’è Anna? (1976), che hanno soprattutto la funzione di far rivivere la figura di Anna perché è necessario che il pubblico partecipi alla domanda fondamentale che si pone Carlo, il marito: chi è Anna?.
Tradizionalmente c’è anche una forte componente estetica nel noir, in particolare le luci contrastate, quasi espressioniste. Splendidi esempi sono in Ritratto di donna velata (1975), in Miriam (1980) e in Veglia al morto (1980), entrambi della serie Il fascino dell’insolito, con una riuscita combinazione di musiche inquietanti e di luci espressioniste dalla forte valenza psicologica e in Miriam. Chi sono i direttori della fotografia di questi lavori?
Io posso parlare solo di Miriam, tutto girato in interni e in elettronica, perché i due esterni in realtà sono stati ricostruiti in studio a cominciare dal bar che è stato rifatto esattamente come il bar dipinto in Nighthawks di Hopper. Se ricordi, anche quello che si vede dalla finestre, case o distributori di benzina, sono tutte riproduzioni giganti di quadri di Hopper. Io avevo in testa quella scenografia, firmata da uno scenografo bravissimo con il quale ho fatto anche La casa della follia (1981), e quella fotografia ma a Napoli non erano disponibili direttori di fotografia o datori di luce come erano orrendamente chiamati così mi fecero il nome di Vincenzo Seratrice, attivo nel cinema degli anni ‘40, poi a lungo in televisione negli studi di Roma infine andato in pensione ma pronto a lavorare se il progetto gli interessava. Nonostante ci fossero oltre venti anni fra noi due, il feeling fu immediato e il risultato si vede. Credo che in Miriam sia la fotografia in bianco e nero più bella e nata dall’amore che due persone motivano verso il proprio lavoro e verso il cinema italiano e americano degli anni quaranta, dove agivano grandi maestri, alcuni diventati famosi, altri rimasti favolosi artigiani.
Veglia al morto ha avuto come direttore di fotografia Angelo Sciarra, che era stabile a Napoli, con il quale io ho fatto La mezzatinta (1980), un altro piccolo capolavoro dal punto di vista fotografico, da non invidiare nulla allo splendido bianco e nero dei cinema americano anni Trenta, e a colori La casa della follia, con un uso del colore particolare, giocato quasi tutto sul bianco e sul nero ma a colori. Anche in Uno + Uno (1982) la fotografia di Sciarra aveva toni molto brillanti come richiedevano i toni di una commedia sofisticata.
Negli sceneggiati del mistero italiani si svela un aspetto inquietante dei paesaggi limpidi e mediterranei del Belpaese. Castigo (1977) di Majano, tratto dal romanzo di Matilde Serao, è ambientato a Napoli, città eminentemente solare, lontana dalle cupezze letterarie romantiche, una dimensione sovrannaturale. Majano si attiene al romanzo della Serao, ma in filigrana si sentono gli echi del Sâr Peladan, della pittura stanca e splendidamente annoiata di Lawrence Alma-Tadema, e, perché no, un empito del nervoso storicismo viscontiano dell’Innocente. La storia si dipana nelle stanze delle residenze nobiliari di Napoli e Roma, nei grandi hotel e nei ristoranti alla moda della capitale, tra le cappelle di famiglia del monumentale camposanto di Poggioreale, nelle camere mortuarie e nei boudoir illuminati dal debole bagliore delle lampade a petrolio, che spandono una luce fioca sugli steli dei crisantemi, sui vasi in pasta di vetro e sui velluti gialli e violacei.
Ultimamente anche Il commissario Montalbano, i cui episodi hanno sempre avuto una velata componente noir, con tante femme fatales, ha virato verso questo genere, in particolare negli episodi Un covo di vipere (2017) e Come voleva la prassi (2017) . Anche nel caso del commissario di Camilleri, si tratta di originali noir in pieno sole, che contraddicono la regola secondo cui dovrebbero prevalere atmosfere cupe e piovose.
Uno dei noir più belli è Plein soleil (1960) di René Clement, dal romanzo di Patricia Highsmith, quindi cominciamo a smentire la leggenda del buio, della tempesta e della nebbia. Quando costruisci una storia nera nell’anima la puoi ambientare anche in Africa. A proposito uno dei racconti che non ho mai pubblicato è ambientato a Malindi, in Kenya, e ti assicuro è uno dei noir più noir dei miei. In realtà, a conclusione di questo nostro lungo incontro, concordiamo nel dire che ancora su questo genere ci sono tante cose da precisare, tanti pregiudizi da smantellare e soprattutto ancora tanto bisogna fare per dare al genere la nobiltà che ogni genere si merita. Senza distinzioni fra serie A e serie B, casomai le singole opere possono essere catalogate in un modo o nell’altro, ma non per appartenenza genetica a uno stile ma per la qualità della scrittura o della realizzazione visiva. Andrea Camilleri è un maestro e non ha bisogno di regole, lui ne ha una sola: la sua bravura. E per questo spesso è innovativo, è obbligato a farlo dalla sua stessa bravura.
Come è cambiato il noir televisivo oggi? Alcuni temi, come lo sdoppiamento di personalità, riaffiorano qua e là, per esempio in Sorelle di Cinzia TH Torrini, che mi sembra una delle autrici più vicine alla sensibilità degli sceneggiati “storici”. In altri casi mi pare che il noir italiano ricerchi una dimensione europea, vicina allo spirito della Francia che rilegge il noir americano. Succedeva ne La squadra (2000-2007) , quando Fabrizio Nava, il poliziotto interpretato da Giovanni Guidelli, era stato rapito, e si nota in certi episodi dell’Ispettore Coliandro (dal 2006) dei Manetti Bros. o di Rocco Schiavone (dal 2016), in partocolare quelli girati da Michele Soavi, che spostano l’attenzione sull’investigatore, piuttosto che sull’uomo comune o sul professionista di successo invischiati in drammi kafkiani. Oggi pare che Kafka non sia più di moda nel noir, si preferisce un tormento esistenziale alla Sartre, condito con un po’ di Chandler.
Seguo poco la fiction attuale, la serie su Rocco Schiavone mi piace ma più per merito dell’attore che trovo bravissimo e coinvolgente piuttosto che per le storie, che, a mio avviso, suonano a vuoto. Però io sono convinto che ogni scrittore abbia il sacrosanto diritto di scriversi la storia come vuole e già il fatto che io li abbia visti ben due volte è un successo, quindi posso permettermi qualche piccola critica. Io credo che sia la Francia sia l’Italia abbiamo ormai sviluppato un senso autarchico del noir, fatto da tante piccole commistioni, perché sempre di più le storie che appartengono a questo genere sono radicate nella realtà sociale e ogni paese, a grandi linee, ha caratteristiche proprie. Quindi gli Stati Uniti si allontanano, l’hard boiled rimane la madre di tutti i noir, ma i figli crescono, diventano grandi, a volte anche più belli, perché dentro ci sono Hammett e Chandler ma anche Kafka e la grande eredità della letteratura gotica. Le guglie delle chiese gotiche son belle anche quando brillano al sole.
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