Il regista tedesco naturalizzato francese Max Ophüls, maestro insuperabile del melodramma, adorato e venerato dai più grandi (per Kubrick è il preferito, Truffaut lo ama incondizionatamente), gira l’ultimo film della sua carriera nel 1955 e questo è Lola Montes. In esso mette tutto ciò che percepisce di folle e storto del suo tempo e riversa le tematiche che più gli sono state care. Ma quello che poteva essere il suo testamento spirituale diventa un’opera travagliata che solo col passare degli anni sarà riconosciuta come un capolavoro. Il regista morirà due anni dopo, nel 1957.
Tratto dal romanzo di Cécil Saint-Laurent, Ophüls desidera raccontare la storia vera della splendida ballerina ed avventuriera in bianco e nero e attraverso un’attrice che abbia la stessa intensità dell’originale. La produzione non solo gli rifila a forza la bionda star del cinema francese non troppo impegnato Martine Carol, ma gli impone anche di girare nel formato CinemaScope e in tre lingue diverse. Il film diventa una vera impresa, anche commerciale, per un regista dalla visione originale e personale, priva di sbavature, come Ophüls. Il budget è elevatissimo. Martine Carol, sotto pressione e poco gradita, girerà il migliore film della sua carriera.
Lola Montes (Martine Carol) viene descritta nelle sue vicissitudini grazie ad una narrazione parallela e magistrale che la vede lavorare come attrazione in un circo e al contempo, di pari passo con lo spettacolo – ma mostrando come stanno veramente le cose al di là della narrazione fantastica – si narra la sua vita reale. Ragazza poco amata e costretta ad un matrimonio precipitoso e sfortunato, Lola è una donna coraggiosa e audace che non vuole cedere alla vita e desidera affermare la sua volontà di sopravvivenza e indipendenza.
Per il circo, che la ingabbia come un animale da mettere in mostra, è invece un mostro, la mangiatrice di uomini senza cuore, volubile, incostante, ambiziosa. Le sue relazioni, col musicista Franz Liszt o col re Ludovico I di Baviera, sono tutte motivo di scandalo e pettegolezzo, se non di vera e propria sommossa sociale. Il regista, ben lungi da moralismi o giudizi, ci mostra una donna dalla mentalità moderna, alla ricerca di un posto in cui fermarsi, di un amore profondo e quieto che la vita però non le concede.
Ophüls ci svela il divario abissale tra l’immagine che il pubblico vuole, spettacolarizzata, impietosa e quella invece reale, che è piena di fragilità del corpo e dello spirito. Non gli sta tanto a cuore la narrazione classica di una serie di eventi avventurosi o drammatici, quanto la messa in scena di un circo che è circo anche per sè stesso, e mette alla berlina la società basata sulla pubblicità, sulla finzione, sull’apparenza, ma anche sullo sfruttamento e la commercializzazione del corpo femminile.
Peter Ustinov, l’impresario di Lola, è un uomo energico e senza scrupoli, come si richiede da copione, al punto di non curarsi del fatto che, durante la sua esibizione finale dal trapezio, la donna sia in pessime condizioni di salute e rischi la vita.
Ma Lola, quando deve scegliere tra un nuovo e giovane amore, uno studente nazionalista – Oskar Werner del futuro Jules e Jim – che le prefigura una vita borghese al suo fianco e l’umiliazione di esibirsi in un circo, preferisce una dignitosa e amara indipendenza, anche se la condannerà a rivivere grottescamente la sua vita, ogni sera.
Anton Walbrook (il favoloso protagonista maschile di Scarpette Rosse), gentile e attempato re di Baviera dall’udito difettoso, rimane l’ultimo amore impossibile di Lola.
Il film fu un insuccesso clamoroso, anche a fronte dei costi sostenuti. Per motivi commerciali, fu imposta una versione finale del film di 110 minuti, tagliata di 30 minuti rispetto a quella voluta dall’autore. La versione attuale, del 2002, è il risultato di un attento restauro della versione originale tedesca. Il DVD di Lola Montes è disponibile grazie a Ripley’s Home Video.
Furono Les Cahiers Du Cinema, capitanati da François Truffaut, oltre a Rossellini e Tati a difendere Lola Montes dal disprezzo e dall’oblio e a restituirgli il valore che merita, nell’Olimpo dei film più belli della storia del cinema.
L’attore James Mason, che lavorò con Ophüls, scrisse una breve poesia dedicata agli elaborati movimenti di camera del regista e al suo modo di girare:
“Penso di conoscere il motivo per cui
i produttori tendono a farlo piangere:
invariabilmente richiedono
alcuni allestimenti fissi,
uno scatto che non richiede tracce
è agonia per il povero caro Max,
che, separato dal suo dolly,
è avvolto nella malinconia più profonda.
Una volta, quando gli portarono via la gru,
Pensavo che non avrebbe sorriso mai più”.
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