Giovedì 7 aprile, alle ore 18, alla Casa del cinema di Villa Borghese di Roma, si parla del cinema di Nanni Moretti con la presentazione di due libri e la partecipazione di Giovanni Scipioni, autore di “Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione” (Falsopiano) e di Roberto Lasagna, autore di “Nanni Moretti. Il cinema come cura” (Mimesis). Scipioni e Lasagna, rispettivamente giornalista e saggista cinematografico, racconteranno la “Generazione Nanni”, affiancati da Lina Sastri, Fabio Traversa, Francesco Rutelli, Franco Montini.
Riproduciamo un estratto della prefazione al libro di Scipioni scritta da Roberto Lasagna, caso più unico che raro di due autori che si omaggiano a vicenda nel segno del cinema di Moretti: “Ogni film di Moretti è parte di un discorso che muove dalla crisi del personaggio per raccontare l’esistenza nella fase delicatissima del venir meno delle certezze, sino a quel ‘giù per terra’ in cui si ritrovano presto Michele Apicella e Don Giulio e lo stesso Nanni Moretti senza più alcuna maschera. Un viaggio nel mondo di Nanni Moretti è allora anche un percorso nella storia dei comportamenti che il cineasta di Brunico, autore di tredici lungometraggi, ha osservato con sguardo disincantato sin dagli esordi, dall’autarchia dei cortometraggi e di Io sono un autarchico, passando per le maschere degli alter-ego Michele Apicella e di Don Giulio negli emblematici Bianca, Palombella rossa e La messa è finita, attraverso le apparizioni dell’autore-attore in carne ed ossa nella fase cine diaristica di Caro diario e Aprile, gli psicoanalisti di La messa è finita e Habemus papam, il fratello della regista Margherita in Mia madre sino al giudice severo di Tre piani, il film con cui il cineasta per la prima volta adatta il romanzo di un altro autore, quell’Eshkol Nevo in cui si identifica per la capacità di osservazione di un mondo composto di (almeno) tre piani di complessità psichica (…)
Il primo cinema autarchico di Moretti presenta quell’attitudine autoriflessiva difficilmente imitabile, e nello sguardo del giovane autore l’affilatezza dei toni e lo sguardo ‘antipatico’ si affiancheranno al disegno delle fragilità, ma soprattutto alla carrellata di abitudini, caratteri tipici, luoghi comuni che potranno diventare analisi di comportamenti e preludio per affrontare i luoghi della mente, con le loro manie e ossessioni, che popoleranno il futuro cinematografico dell’autore. Le telefonate di Nanni nel suo primo cinema sono sia un momento di comicità disperata, sia un trattato d’impreparazione psicologica, come quando Michele Apicella invita una donna ad uscire con lui e s’ingarbuglia, finendo in trappola in una relazione tutta schemi e frasi fatte. Quelle frasi predisposte da schemi mentali o slogan che il Michele Apicella di Palombella rossa aborrirà quando sentirà parlare la giornalista e finirà per schiaffeggiarla. Frasi fatte avversarie di un cinema che, orgoglioso di sentirsi unico, si scaglia contro i luoghi comuni, le compiacenze, la barbarie di una cultura piegata alle nuove leggi dell’imbonitore di turno. Il quale a un certo punto della vita del paese ha il volto di Silvio Berlusconi, a cui Moretti dedica il suo film Il caimano, un titolo presto incompreso, a più livelli di lettura e imprevedibile, soprattutto perché nella conclusione del suo racconto l’attore Moretti in carne ed ossa si mette a interpretare la parte del Cavaliere delle televisioni private. Ma perché non capire che mettersi nei panni del nemico è un modo dichiarato per scendere in campo? Per esporsi? Per non cercare attenuanti e mediazioni oltre la grande mediazione che un film, così allegorico e dalle venature para-tarantiniane, quasi filosoficamente favorisce? Persino il diventare Silvio Berlusconi è un atto di teatro, un balletto, una guitteria, per quanto potenzialmente drammatica, sconsolata, come sovente succede nel cinema di Moretti. Il quale coglie l’altro, il suo volto e il suo tormento, il suo disagio e il suo punto di vista, interpretandolo, facendolo diventare una sua possibile personificazione. Nanni Moretti diviene un insolito professore di matematica, in Bianca, per illudersi con la casistica di famiglie e relazioni attraversate dall’armonia perfetta dei numeri, un’armonia illusoria che nasconde la malattia mentale del personaggio. Nanni Moretti diviene sacerdote, ne La messa è finita, per rispettare e drammatizzare la solitudine del sacerdote, e cogliere, in una sceneggiatura che formula la direzione di un cinema narrativamente più strutturato, momenti del disorientamento del personaggio, in cui immette pagine del Moretti personaggio irriducibile, quel Don Giulio pronto a lasciarsi quasi annegare da posteggiatori volgari e violenti a cui egli oppone la sua testardaggine che muove però all’adesione emotiva (ma solo dello spettatore). Frasi e passaggi di un cinema che divengono intercalare comune, quali ad esempio “continuiamo così, facciamoci del male”, nota di sconsolato rimprovero ai commensali per un individuo, il professore di Bianca, che ama i dolci e non comprende il sadomasochismo di chi non conosce la Sacher Torte. Perché i dolci, beninteso, non sono soltanto dolci.
Una lettura, quella di Scipioni, che riesce a cogliere come Moretti, attraverso qualcosa di assolutamente personale come la passione per i dolci, esprima una visione che filtra i comportamenti, regalandoci anche monologhi sulla solitudine di un personaggio le cui ossessioni divengono anche motivo di isolamento. Nell’affrontare tutto il cinema di Moretti, sottraendosi alla mitologia e dando voce alla lingua morettiana, il libro “Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione” si presenta come un lavoro originale e pedagogico, in grado di raccontare il mondo del cineasta come qualcosa che appartiene alla storia del nostro paese, per riconoscere nella sua attenzione per il linguaggio un tratto che si va perdendo. Dotato di ineffabile capacità di sintesi, il racconto di Scipioni scende però in profondità, ci racconta il pensiero e la crucialità di un autore sempre un po’ più in là rispetto a dove lo si vorrebbe inquadrare, cioè attento alla difficoltà umana affrontata dai suoi personaggi. E sono porte chiuse quelle che Moretti affronta e apre nei suoi film, come La messa è finita e La stanza del figlio. Sono momenti di riflessione sul personaggio che richiedono la complessità e l’urgenza del confronto, come conferma anche il tredicesimo lungometraggio dell’autore, Tre piani, calato nella vertigine del rapporto tra genitori e figli, nelle domande che rimangono sospese e in attesa di risposte, e che uno sguardo oltre le pareti del proprio appartamento ottiene di evocare in tutta la sua urgenza. La tenacia urtante del personaggio che commentava la sua generazione, la posizione del politico amnesico, la voce stridula del prete che intonava le canzoni di Bruno Lauzi, cercavano, nel passato del cineasta, una qualche armonia perduta. Il nuovo cinema di Moretti, da qualche tempo a questa parte, sembra allora rispondere al bisogno di una riflessione meditativa, rilanciata dalle pagine pasoliniane di Caro diario, rammentata dalla posizione scomoda e in attesa di un cambiamento del neoeletto Papa Michel Piccoli in Habemus Papam, ricomposta attorno all’immagine degli spettatori, tra i quali la protagonista Margherita Buy, che in Mia madre si ritrovano nella fila onirica per un film che sembra Il cielo sopra Berlino di Wenders e possono ascoltare quell’invito morettiano a “rompere un tuo schema, almeno uno”. Perché è quello che Moretti ci invita a fare, sempre, con il suo cinema. E oggi lo fa a tratti in maniera più evidente, scoperta. L’invito a rimettere in discussione il nostro punto di vista su noi stessi e il mondo. E guardare oltre i tre piani, oltre le pareti dei quartieri bene di Caro diario. Ci invita a riconsiderare la storia intima di noi tutti come un fatto (anche) sociale”.
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