Disponibile su RaiPlay Visages, villages, un documentario francese del 2017 diretto da Agnès Varda e JR. Al Festival di Cannes 2017 ha vinto il premio de L’Œil d’or, mentre nell’ambito dei Premi Oscar 2018 ha ricevuto la candidatura nella categoria “miglior documentario”. Con questa candidatura Agnès Varda è diventata la persona più anziana a venire candidata a un Oscar competitivo.
Trama
La cineasta Agnès Varda e l’artista e fotografo JR visitano villaggi, piccole città, fabbriche di una Francia fatta di volti e comunità dimenticate, facendone un ritratto commovente e cercando di modificare l’idea stessa di territorio.
I quasi novant’anni di Agnès Varda (il 16 Maggio 2018) non costituiscono un traguardo, un risultato da esibire sul palcoscenico del tempo, poiché la regista, sceneggiatrice e fotografa belga, autrice di film indimenticabili (Cleo dalle 5 alle 7, Senza tetto né legge, Kung-Fu Master, solo per citarne alcuni), ha mantenuto un’indomabile vivacità di sguardo, una curiosità per il mondo che commuove e provoca un contagioso e rinnovato interesse per tutta quella vita che ogni giorno ci danza intorno e alla quale ci siamo fatalmente assuefatti.
Insieme al giovane JR, “un artivisto urbano”, come egli stesso si definisce, Varda parte alla volta di un viaggio mosso da un desiderio senza causa, il cui itinerario è affidato al caso, privo di una meta: cioè che conta è incontrare le persone, ascoltarle, accoglierle, dare loro voce. Attraverso le meravigliose foto-murales di JR, che, incollate sulle pareti di abitazioni o di qualunque edificio che possa ospitarle, riflettono in maniera monumentale le figure di tanti ‘anonimi’, la regista realizza una preziosa missione: segnalare, attraverso un’amplificazione della rappresentazione, l’eroismo silenzioso di tutti quegli individui estromessi arbitrariamente dalla Storia, consegnati miseramente alla fornace di un oblio che tutto fagocita. “La Storia siamo Noi, nessuno si senta escluso”, cantava Francesco De Gregori: Varda restituisce un indiscutibile valore a tutte quelle persone che, quotidianamente, lottano senza risparmiarsi contro l’ostilità di un destino cui non si rassegnano.
I minatori che all’inizio del secolo scorso spesero l’esistenza nelle tenebre di alcuni stretti, angusti cunicoli, dimenticando la gioia della luce del sole; gli operai impegnati in un incessante lavorio, tra i rumori assordanti di una fabbrica sperduta; i portuali che svaniscono tra le enormi sagome di migliaia di container destinati a raggiungere chissà quale luogo esotico; un agricoltore che da solo, grazie ai macchinari, gestisce e lavora più di 800 ettari di terreno. Visages, Villages, allora, diviene uno strumento attraverso cui dare voce a chi non ce l’ha, un’occasione per fissare su una pagina mai scritta le gesta di chi, perseverando senza strepiti, merita di essere illuminato e posto in uno spazio in cui trovare la giusta attenzione. Inoltre, il metodo di lavoro del giovane JR, che comporta la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti, svela la natura fortemente comunitaria dell’atto creativo che, finalmente, si sgancia dal narcisismo solipsista dell’autore, svanendo nell’indiscernibilità di un’intersoggettività costituente.
Se, già da sole, queste considerazioni basterebbero a proclamare l’indubbia bontà dell’ultima fatica di Varda, a offrire ulteriori elementi a suo favore concorrono alcuni meravigliosi passaggi che, durante il film, scandiscono una sorta di movimento interno all’immagine, attraverso cui viene posta una decisiva riflessione sulla sua consistenza ontologica: uno dei murales, apposto su un lato di un suggestivo bunker precipitato dalla scogliera e conficcatosi plasticamente su una spiaggia, viene divorato dall’azione usurante dell’acqua marina; Jean-Luc Godard, cui Varda aveva dato un appuntamento da includere, quale uno dei momenti più significativi, nel suo documentario, non si fa trovare (decide di non diventare immagine), lasciando solo una scritta-messaggio sulla vetrata della sua abitazione, che spiazza non poco i due co-registi; nell’ultima sequenza, Varda e JR si siedono su una panchina, mirando, malinconici, l’orizzonte che si staglia al di sopra dello specchio d’acqua di un placido lago.
Sembra quasi – e il sospetto dello scrivente è stato avvalorato dalla stessa Varda, che alla sua domanda ha risposto riconoscendone la possibilità – che, come si diceva poc’anzi, in Visages, Villages sia presente un percorso attraversato dal succedersi di alcuni stati contigui dell’immagine, la quale, dando visibilità agli invisibili, acquisisce una valenza etica notevole, in direzione di un ordine simbolico in cui vengono riformulati i parametri della rappresentazione. Eppure, se tutto ciò è giusto e necessario, pare comunque non arginabile l’ulteriore e più radicale avanzamento di un processo che termina con il definitivo sprofondamento del visibile nell’invisibile. La proliferazione delle immagini nella liquidità dello spazio digitale si rovescia nel suo contrario: quando tutto sembrerebbe decretare l’apogeo del visibile, ecco che, invece, si assiste a un movimento inverso che neutralizza l’eccedenza di ciò che ostinatamente si mostra, provocando una dilatazione dello spazio e del tempo non più rappresentabile. Il rapporto di causa-effetto della dimensione cronologica collassa nell’indefinibilità di una durata, in cui si propaga un tempo interiore che è come uno zampillare improvviso, incatturabile; una ninfa che non appena viene scorta si dilegua. Ma, ancora una volta, sarebbe ingenuo pensare di poter fare a meno della rappresentazione; essa è intoglibile e costituisce l’ineliminabile contrappunto di ciò che non si manifesta, non si coagula in significato, ma fluttua, informe. Rappresentabile e Irrapresentabile (Immagine e Non- Immagine, dice Varda) sono, come lo spazio liscio e striato di Deleuze e Guattari, l’uno il rovescio dell’altro, sebbene quasi indistinguibili all’interno del vorticoso movimento di un nastro di Möbius in cui è impossibile porli in relazione dialettica.
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