E.T.
Regia: Steven Spielberg; fantascienza/avventura, USA 1982
Interpreti: Henry Thomas, Drew Barrymore, Robert MacNaughton, Peter Coyote, Dee Wallace, Erika Eleniak.
Sabato 11 giugno, ore 21.26, Italia 1, canale 6; durata: 115′
Quarant’anni fa, l’11 giugno del 1982, usciva nelle sale statunitensi E. T. l’extra-terrestre, il film dell’amicizia tra un bambino e un extraterrestre, esaltazione dei sentimenti fraterni tra popoli di mondi diversi, nel trionfo fanciullesco della Hollywood neo-classica che avviava una nuova fase nella produzione spielberghiana, dopo gli anni Settanta della riaffermazione di un sistema produttivo di massa e delle innovazioni tecnologiche. Con gli Ottanta di E. T. e del contemporaneo Poltergeist-Demoniache presenze – sempre prodotto da Spielberg che contribuisce anche alla sceneggiatura lasciando la regia a Tobe Hopper – si dipana il mutamento dell’immaginario fantascientifico; ma Spielberg mette in campo quell’universalità di sguardo – nella continuità col passato – che contende le sue metamorfosi con quelle di un film esemplare del periodo, La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter, dove le inquietudini intestine fanno da controcanto oscuro alle suggestioni che si avvantaggiano delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia. Gli anni del “reaganismo” trovano in questi alieni voci non allineate, e persino nella favola buona di E. T. si avverte l’espressione di un sentimento non in linea con l’esclusione del differente, per un film che anzi porta l’amicizia intensa e lo sguardo intimo al cospetto di avventure che segnano l’immaginario di un’utopia fraterna e solidale, quando avremo presto, nel futuro cinematografico del regista, vere e proprie incursioni nella Storia dei diritti e delle rivendicazioni dei popoli.
L’estate del 1982 si rivela dunque come l’estate cinematografica di Spielberg, il quale attraverso E. T. e Poltergeist-Demoniache presenze, intercetta una doppia strada per il genere fantastico, di contro a chi invece vede nell’approccio spielberghiano toni univoci e, comunque, tranquillizzanti. Poltergeist è un film che rappresenta il lato più spaventoso e hitchcockiano di Spielberg, così come E. T. ne riflette invece il controcanto più ottimistico e positivo. Nelle direzioni plurime, la fantascienza politica degli anni Settanta continua ancora a lasciare il segno, mentre Spielberg, riallacciandosi direttamente a Incontri ravvicinati del terzo tipo – di cui E. T. rappresenta una sorta di seguito sulla Terra – procede con un’idea precisa: ogni incontro di culture diverse è possibile, deve essere possibile, e il cinema è chiamato direttamente in causa a funzionare da grande mediatore. Carlo Rambaldi crea una creatura antropocentrica il linea con una tensione espressiva che in questi anni richiede una visibilità nuova e stupefacente dell’alieno (che qui ha fattezze antropomorfe come in Incontri ravvicinati del terzo tipo, diversamente da quanto accade nel cinema di John Carpenter, il cui mostruoso essere metamorfico esprime con raccapriccianti soluzioni visive la malattia insita nella comunità intera secondo quello che un diretto attacco all’american way of life del cinema horror contemporaneo). E. T., con la postura di un simil-Yoda, è un alieno dalle suggestioni meticce, risposta spielberghiana alle guerre stellari (e alle psicosi da guerra atomica) nonché proiezione di un bisogno di appartenenza; opera di un regista che “sente” e dimostra di conoscere il linguaggio emotivo dei suoi personaggi, sfoderando un ottimo senso della suspense e una notevole attenzione per il mondo degli infanti.
Il film è di certo il trionfo dell’aspirazione fanciullesca (“ho atteso questo momento da quando avevo 10 anni”, dice uno degli scienziati accanto al protagonista Elliot), e nel racconto coinvolente di Spielberg, lo scarto tra la vita e il sogno, tra il reale e il fantastico, tra il mondo degli infanti e quello degli adulti, trovano soluzioni in un disegno appassionato che libera guizzi divertenti sulle virtù della giovane età.
Il piccolo extra terrestre che “inciampa” sulla terra, finisce per destabilizzare gli equilibri di questa famiglia di fratelli (dove il padre è assente, come nella vicenda personale del regista), diventando anzi il detonatore del confine tra magia e realtà, tra sogno e ordinarietà (un aspetto che, evidentemente, conosciamo sin dalle strade di Duel). E.T. pullula di elementi favolistici e di proiezioni psicanalitiche, ma finisce per mettere in scena soprattutto significati primari; il mondo dei grandi, ad esempio, è visto proprio attraverso gli occhi dei più piccini, e perfino il personaggio del vigilante – interpretato da Peter coyote – che dovrebbe rappresentare l’ingerenza della sfera civile e politica, finisce per assumere il ruolo di un adulto finalmente felice di poter tornare bambino nell’incontro con il nuovo amico venuto dallo spazio. In questo sguardo ad altezza di fanciullo, Spielberg dà il meglio di sé attraverso un film notevolmente sinfonico (celeberrime le partiture di John Williams) che deve il suo enorme successo all’entusiasmo riposto nella corsa dei fanciulli, nella fuga-viaggio dentro l’immaginazione più sfrenata e, al contempo, intima e privata. Come in Incontri ravvicinati del terzo tipo, la comunicazione tra gli esseri di altri mondi è un fatto che trascende gli ordinari schemi di riferimento: quasi una sorta di predestinazione al contatto che si esprime attraverso i modi più primitivi e magici, virtù di individui-esseri straordinari.
Elliot, come Peter pan, conosce l’ebbrezza del volo, grazie alla bicicletta destinata a raggiungere, nel cielo, i contorni della luna. Realizza che gli adulti non riescono più nemmeno lontanamente a riconoscere i personaggi che popolano la vita fantastica dei bambini (la madre di Elliot non vede mai E. T., anche quando questi gira libero per la casa in compagnia della piccola sorella di Elliot – Drew Barrymore – che lo accudisce teneramente). E. T., dal canto suo, capisce che la terra non gli è ostile ma che è troppo, davvero troppo frenetica. Un luogo dove comunque l’amicizia è possibile, a patto di rimanere disponibili all’ascolto. E.T., film adatto ad ogni pubblico ma sicuramente vicino ai gusti dei più piccoli, è l’opera che meglio esprime, sino a questo punto della vicenda artistica di Spielberg, la tensione per l’assenza delle figure familiari fondamentali come il padre. In questa prospettiva, il film è davvero una favola-horror dai reconditi significati esistenziali. Una mancanza-assenza non solamente simbolizzata, ma avvertita come reale, dolorosa, inevitabile. Se l’alieno è così anche una figura familiare sostitutiva, ciò rientra pienamente nella dimensione poetica del regista, prima che in un supposto predominio della componente “buonista”. Contrariamente a Roy Neary in Incontri ravvicinati del terzo tipo, Eliot non sale sull’astronave venuta per salvare E. T.; non farà un viaggio verso la galassia sognata. L’avventura che ha potuto vivere gli ha già dato molto. Così Elliot, anche attraverso il rito dell’incontro con l’altro, può diventare uomo, può crescere portando con sé questa splendida esperienza di contatto con l’altro.
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