Disponibile su RaiPlay Otto ore non sono un giorno, una serie televisiva in cinque episodi di Rainer Werner Fassbinder. La serie, prodotta dalla Westdeutscher Rundfunk e andata in onda tra il 1972 e il 1973, ha fatto la storia della televisione tedesca. Il tentativo di Fassbinder di reinterpretare un genere popolare come la serie fu un grande successo di pubblico. Dimenticati per decenni, i cinque episodi sono diventati di nuovo disponibili dopo il restauro promosso dalla Rainer Werner Fassbinder Foundation, con la collaborazione del Museum of Modern Art di New York. La versione restaurata è stata presentata in prima mondiale al Festival di Berlino del 2017. Si tratta della grande riscoperta di una delle opere più originali del geniale regista tedesco. Fu la prima serie i cui protagonisti erano degli operai. Ma fu anche il primo film sul mondo della fabbrica programmaticamente diverso da tutti i documentari politici, pur essendo il frutto di un anno di ricerca nelle fabbriche e di discussione coi lavoratori. Otto ore non sono un giorno, che si avvale della partecipazione di molti degli attori e dei collaboratori abituali del regista, fu un successo di pubblico, ma venne aspramente criticato sia da destra che da sinistra. La serie era prevista in otto episodi, eppure, malgrado il successo, fu interrotta dopo il quinto episodio. Con Gottfried John, Hanna Schygulla, Luise Ulrich, Werner Finck, Anita Bücher, Wolfried Lier, Christine Oesterlein, Renate Roland, Kurt Raab, Irm Hermann, Margit Carstensen, Ulli Lommel e Eva Mattes.
Trama
Le vicende della famiglia Kruger scorrono in parallelo con le traversie lavorative dei suoi singoli membri, in particolare quelle di Jochen, operaio meccanico in una fabbrica. Le storie d’amore nascono, crescono e muoiono nel corso della serie intrecciandosi alle lotte tra gli operai e i padroni nelle fabbriche. Dimenticata per decenni, una delle opere più originali del geniale regista tedesco, ritrovata e restaurata nel 2017.
“Tutti i film e i drammi che ho scritto erano indirizzati a un pubblico intellettuale Nei confronti di questo si può benissimo essere pessimisti e lasciare che un film si concluda nell’impotenza. […] Nel caso del pubblico più largo, che era quello della mia serie televisiva, sarebbe stato reazionario e pressoché criminale dare un’immagine disperata del mondo. Il primo compito è di tentare di renderli più forti dicendo loro: “voi avete ancora delle possibilità. Voi potete far uso della vostra potenza, perché l’oppressore dipende da voi. Che cosa è un padrone senza operai? Nulla. Ma si può senza dubbio pensare un operaio senza padrone”.
(Rainer Werner Fassbinder)
“La breve e densa parabola artistica di Fassbinder è ancora, nonostante il tempo trascorso, di difficile percezione nella sua interezza, di difficile classificazione se solo si pensi alla diversità dei materiali che compongono la sua filmografia e la visione di questa serie conferma l’assunto. Qualcosa però appare accertato con sicurezza: la sua genialità e il carattere al contempo raffinato e popolare del suo cinema. Un lavoro sui generi, ma soprattutto sul melodramma, che, per dire, sapeva coniugare la complessità di un romanzo per nulla semplice nella sua struttura come Berlin Alexaderplatz con una riduzione televisiva che sapeva “ricostruire” il romanzo, conservandone la sostanziale cupezza, rispettando il senso profondo di quella struttura linguistica aperta alla modernità, ma anche lavorando su una ipotesi di racconto popolare, proletario, se ci si passa la parola, a cominciare dalla scelta del romanzo, che vede, per l’appunto, nel diseredato ex galeotto e proletario Franz Biberkopf il protagonista del racconto. Otto ore non sono un giorno è una miniserie televisiva che il regista tedesco girò nei primi anni ‘70 e, quindi, una decina d’anni prima dell’altro e più famoso lavoro televisivo. La serie, ora su Raiplay, conferma che, nonostante gli anni che separano i due titoli, la poetica fassbinderiana non sarebbe mutata. Il suo sarebbe stato un impegno autoriale, senza alcuna concessione al compromesso, con lo sguardo rivolto ad una marginalità sociale sempre più accentuata. Tanto è vero che Otto ore non sono un giorno sa risolvere, con i toni della commedia e una galleria di personaggi perfettamente delineati nei loro caratteri, temi sui quali il cinema di quegli anni avrebbe lavorato intensamente, ma con ben altri accenti, con una partecipazione animosa ed estrema. Basti pensare al cinema italiano di quegli anni, che rispetto ad alcuni argomenti come ad esempio la lotta di classe o l’emancipazione femminile, insisteva su una estremizzazione dei toni e una sempre drammatica soluzione. Solo in rari casi ciò non accadeva. In Fassbinder il conflitto sociale resta sullo sfondo, ma non per questo è meno sentito o meno rilevante.
La serie Otto ore non sono un giorno va ovviamente contestualizzata nel periodo della sua realizzazione e ancora di più in quello precedente della sua scrittura e non ci si può esimere dal ragionare sul fatto che si era a ridosso del decisivo 1968 che, al di là di ogni opinione che si possa avere sulle ribellioni di quegli anni, è rimasto l’evento ininterrotto che ancora oggi non ha smesso di restare cosa viva. Il regista tedesco nel 1968 aveva 22 anni e pertanto ha vissuto a pieno il clima della rivolta, assorbendone altrettanto pienamente gli immediati mutamenti di prospettiva che il rivolgimento, soprattutto culturale, imponeva. Significherà pur qualcosa il fatto che in quegli anni Fassbinder che già faceva parte della compagnia dell’Action-Theater, che venne chiuso dalle autorità di polizia di Monaco di Baviera dove allora viveva, fondò con l’amica Schygulla e altri amici provenienti dalla precedente esperienza un’altra compagnia cui fu dato il nome di Antitheater.
È dunque in questa atmosfera da (post) bufera, che la serie TV prende avvio ed è questa l’aria che si respira nelle atmosfere dei cinque episodi che compongono la miniserie. Nonostante, infatti, il tono si adatti ad un registro da commedia familiare, da commedia degli equivoci, a volte senza equivoci, uno dei livelli del racconto resta quello della strisciante contestazione del gruppo di operai amici di Jochen contro le decisioni via via assunte dalla dirigenza della fabbrica. Ma la soluzione a questo disagio, e a quelli che verranno nel corso del racconto, dimostreranno l’ottimismo di un’utopia del lavoro operaio che diventa traccia di un’interpretazione delle questioni sociali da parte dell’autore.
Se c’è un dato che spicca nel racconto televisivo di Fassbinder, maestro indiscusso del melodramma come forma espressiva privilegiata, è l’ottimismo di fondo che lo pervade, è quel senso di possibilità e di speranza che caratterizza le azioni e le vite dei personaggi, in una visione di possibile realizzazione di quell’utopia che sembra potersi concretizzare nel coraggio delle scelte, nella decisiva sicurezza della loro bontà e della giusta direzione nella quale sono operate. È questa, allo stesso tempo, la complessità di Fassbinder e il lascito culturale di un’epoca che aveva cambiato dalla radice le prospettive di sguardo sul mondo. Fassbinder ne ha fatto parte e la sua opera, compreso questo divertente e denso lavoro televisivo, confermano le sue parole e arricchiscono il senso della sua opera, che resta ancora da scoprire nel suo profondo valore”.
(Tonino De Pace, Sentieri Selvaggi, 3 Marzo 2022)
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