Goksung – La presenza del diavolo (The Wailing), titolo del 2016 accentua l’attenzione per l’horror coreano, in un universo di sottogeneri che confluiscono in un racconto dilatato sulla follia pronta a dilagare d’improvviso in un villaggio tranquillo dell’entroterra sudcoreano. Se a dominare è la ghost story, il regista Na Hong-jin, che scrive il film in una stagione decisamente prolifica per il genere, convoglia differenti suggestioni e argomenti, che vanno dalla possessione demoniaca allo zombie movie con un buon innesto di tensioni epidemiche. L’apocalisse che gradualmente porta sgomento nel villaggio prende avvio dalla presenza di un sinistro signore, viandante dagli occhi infiammati di rosso, che si aggira quasi nudo in un bosco e mangia le carni di un cervo prima di scagliarsi su un malcapitato avventore il quale, terrorizzato, tenta di nascondersi dietro a delle rocce ma andrà incontro alla famelica furia del figuro spettrale.
Lo sguardo insanguinato del viandante che osserva l’individuo nel bosco è naturalmente rivolto anche verso lo spettatore che di spavento in spavento si ritrova, con Goksung, in un mistero in cui la luce, pur presente e dominante nei primi momenti del film, cede il posto a un’oscurità paurosa, in cui si succedono agghiaccianti omicidi osservati con lo sguardo del poliziotto Jong-Goo (do Won Kwak), un uomo goffo e impotente dinanzi alla devastazione in atto. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, Goksung è un film dalla lunga durata, ma i suoi centocinquantasei minuti sono perfettamente calibrati per rendere conto del caos e del terrore che si propagano nella piccola comunità rurale, dove i sospetti e le superstizioni fanno da alleato all’agitazione vissuta dalla polizia locale, incapace di trovare l’assassino e di offrire una spiegazione attendibile, così che alcuni abitanti chiedono l’intervento di uno sciamano. In alcuni punti, specie all’inizio, la dabbenaggine della polizia ottiene qualche momento di divertimento, che rende più digeribile gli spaventi, ma ben presto il sorriso si contorce, e il goffo poliziotto continua a voler disperatamente capire, anche se comprende ben poco dei comportamenti delle donne che manifestano atteggiamenti strani ed hanno evidentemente scorto il maligno.
I confini tra Bene e Male divengono maledettamente incerti e l’avvio della detection, che ha il suo prototipo folgorante nel modello sudcoreano del thriller rappresentato da Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho, qui permette quell’ingresso nel mistery che scavalca presto gli steccati dei generi. Il soprannaturale prende gradualmente consistenza anche grazie ad un poliziotto protagonista il quale ben si presta a suggerire la sgomenta inadeguatezza richiesta dal suo personaggio, pronto a calarsi generosamente alla ricerca dell’assassino ovvero del fantasma che ha le fattezze di quel sinistro elemento del dubbio pronto a deflagrare con drammaticità inquietante. Il dramma del poliziotto pacioccone, con i suoi atteggiamenti più o meno razionali, è come il filtro emotivo-spettatoriale di una vicenda in cui il Male Assoluto spaventa giungendo imprevedibile e immotivato, seminando la deturpazione delle vittime, con la polizia e i vari osservatori che tutt’al più provano a scansare la minaccia, ma sembrano non possedere i mezzi per combatterla o comprenderla, così che rimangono immobili a vedere uno scempio quando ormai è troppo tardi. Le indagini non sanno spiegare gli accadimenti, e così nemmeno la scienza e la medicina. Soltanto una donna, subito inascoltata, che lancia sassi come protesta contro i poliziotti inerti ed è evidentemente disturbata, solleva la testimonianza di un fantasma che succhia il sangue alle vittime.
Nel contrasto tra la tranquillità dei quadretti familiari in cui si protrae la vita di Jong-Goo – con la figlioletta che osserva le goffe prodezze sessuali del padre cinquantenne nascosto sull’auto -, e la presenza immateriale del Male, la narrazione disegna un film che è come un affresco di volti sofferenti e contorsioni fisiche. La presenza del Diavolo, da immateriale ottiene invece segni tangibili e immagini disturbanti, con dettagli che trovano espressione nelle escoriazioni e nelle pustole che sono il calvario dei malati – come nella sequenza in cui uno di loro riempie la mascherina dell’ossigeno di sangue. Il morbo è un disagio tragico ed esistenziale che sparge segni sul corpo e, come una lenza gettata nel lago, attende le sue prede (così si apre il film, con l’immagine del pescatore che doppia evocativamente una situazione in cui presto non si risparmierà alcun individuo). Così, il Diavolo-morbo attende le sue vittime come una creatura sovraumana, e la sua identità si ritrae, sfugge ed è scaltra, mostrandosi più vicina alla tradizione giapponese degli Oni che a quella occidentale di Mefistofele. Ma soprattutto, il Diavolo di Goksung è un’entità nomade e deturpante, che in quanto tale sgomenta; trae in inganno, si fa beffa dei malcapitati e nasconde la sua vera identità persino allo stregone chiamato per un esorcismo. E quando riusciamo a scorgerne il vero volto è ormai troppo tardi. Il morbo fisico e psichico invade ogni luogo, devasta persino gli innocenti, aggredisce anche la figlia di Jong-Goo e tramuta la visione in un’esperienza al di là della comprensione, capace di lasciare con il fiato sospeso in un singolare amalgama di dramma familiare intriso delle atmosfere da thriller da provincia. La narrazione si dipana su un progressivo crescendo di tensione emotiva in cui la ghost story evita di scoprire le sue carte, fino all’amaro epilogo dilatato in quei lunghi minuti di crudele fascino in cui si attende la liberazione ovvero la raffigurazione di un demonio pronto a fotografare beffardamente il suo testimone.
Le pagine di esorcismo sono originali e inquietanti, ma nel racconto di Na Hong-jin, reduce dalle esperienze registiche corroboranti di titoli come The Chaser (208) e The Yellow Sea (2010), persino le esasperazioni sono un elemento di minuziosa precisione per restituire fisionomia originale a un film che ha momenti che paiono tourbillon di colpi di scena e passaggi di fulminante scaltrezza. L’enigma che si dipana soltanto nel finale, dopo l’immersione in un gioco di pedine posizionate con lentezza e apparente casualità, è l’apoteosi di un film in cui il contesto rurale intriso di cattolicesimo e sciamanesimo ritrova tutta la sua caratteristica di fatalismo e fiacchezza: un’indolenza in cui i sospetti e la goffa ingenuità dei paesani non possono che condurre alla confusione. Il caos d’altro canto, essendo il tratto che più emerge dalle prime immagini del film, si fa preludio di una violenza pronta a sprofondare la cittadina nell’abisso. L’orrore esplode con le cadenze ipnotiche forsennate che arrivano alla sequenza davvero disturbante del doppio rituale e pur sempre con la figura del poliziotto Jong-Goo, a doppiare la condizione dello spettatore. E se inizialmente Jong-Goo non dà retta alle chiacchiere da bar, dovrà ricredersi dinanzi ai gravi segni di squilibrio fisico e mentale della figlia, per cercare di andare più a fondo nella questione e ritrovarsi confuso e spiazzato non meno dello spettatore, almeno nella prima parte del film che prelude a una vicenda complessa e monumentale, con cui l’horror sud-coreano alza decisamente la posta espressiva, e coglie in questa nera vicenda sprazzi di vera inquietudine esistenziale dove non si fanno sconti nemmeno per l’anima del protagonista che poi così candido non è. L’horror enciclopedico trova qui uno suo sviluppo lancinante, esasperato e notevolmente ambizioso.
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