Disponibile su RaiPlay Scipione detto anche l’Africano, un film del 1971 scritto e diretto da Luigi Magni, incentrato sulle vicende dei processi degli Scipioni, avvenuti a Roma nel 187 a. C. Prodotto da Turi Vasile, scritto e sceneggiato da Luigi Magni, con la fotografia di Arturo Zavattini, il montaggio di Ruggero Mastroianni e Amedeo Salfa, le scenografie e i costumi di Lucia Mirisola e le musiche di Severino Gazzelloni, Scipione detto anche l’Africano è interpretato da Marcello Mastroianni, Ruggero Mastroianni, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Turi Ferro, Woody Strode.
Trama
Catone vede nella popolarità di Scipione l’Africano e di suo fratello l’Asiatico un pericolo per la Repubblica, e li accusa di aver rubato denaro pubblico. L’Africano, cui la moglie ha chiesto il divorzio non sopportandone la rigida integrità morale, scopre che l’appropriazione è opera del fratello. Resosi conto che non sono tempi per uomini della sua levatura, prende la responsabilità su di sé e va in esilio.
“La retorica di Catone il Censore, interpretato da Vittorio Gassman, consuma prima e divora poi l’aura mitica che aleggia intorno alla figura di Scipione (detto anche) l’Africano, un Marcello Mastroianni capace, pur nei toni di una commedia leggera, di esprimere l’alto grado di frustrazione del suo personaggio: un eroe che non può più essere eroe, un uomo costretto a scendere dal piedistallo per regredire verso una condizione di normalità e giungere ad ammettere una falsa colpevolezza, in un’operazione inversa, eppure per certi versi contigua, a quella operata da Gian Maria Volontè nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, uscito nello stesso anno.
Luigi Magni, al suo terzo film da regista, esplora l‘antica Roma repubblicana dopo essersi immerso con il film precedente (Nell’anno del Signore) nella Roma Papalina del XIX secolo e conferma così la sua predilezione per lo slittamento temporale, per l’orchestrazione di vicende ambientate in una dimensione storica lontana, che consenta il giusto distacco e la inevitabile oggettività necessari per la lettura e l’analisi del presente. Eppure in questo caso bisogna precisare che le vicende di Scipione l’Africano e del suo accusatore Catone il Censore si stagliano sullo sfondo di una Roma che è già rovina, che è già il monumento di sé stessa; niente a che vedere con le ricostruzioni in studio tipiche dei grandi kolossal: la città è solo accennata dalla presenza di qualche reperto archeologico di epoca romana. Anche i personaggi sono lontani dal loro contesto e si esprimono in un romanesco che, oltre a riportare la vicenda ad una dimensione popolaresca da “commedia all’italiana”, avvicina i personaggi al pubblico e attribuisce loro delle sfumature di modernità che consentono una più rapida comprensione di quegli elementi, tutt’altro che secondari, di critica sociale presenti nel film.
La linearità della storia non è sinonimo di superficialità, dato che da essa riesce ad emergere con forza l’idea di una società votata al compromesso, che riesce a piegare persino Publio Cornelio Scipione, l’eroe di Zama, colui che sconfisse Annibale nella Terza Guerra Punica. L’operazione iconoclasta di Catone il Censore riesce a scalfire l’immagine eroica di Scipione, e i suoi effetti si ripercuotono anche nella vita privata di quest’ultimo. Magni traccia il profilo di un uomo avviato sul viale del tramonto e destinato alla solitudine; abbandonato dalla moglie (Silvana Mangano) e tradito dal fratello, interpretato nel film da Ruggero Mastroianni, fratello di Marcello e, soprattutto, uno dei più grandi montatori della storia del cinema italiano. La vicenda di Scipione non fa che mettere in evidenza l’incolmabile scarto tra l’ideale e il reale, sottolineato per altro dalle inequivocabili parole pronunciate da Vittorio Gassman: “Questa non è l’ideale Repubblica di Platone, è la città fangosa di Romolo”. E per sopravvivere nel fango, si sa, bisogna sporcarsi le mani.
Pur con la consapevolezza di non trovarsi di fronte al miglior film diretto dal regista romano, che forse con l’opera precedente aveva meglio delineato quelli che successivamente si configureranno come gli elementi cardine della sua poetica, non si può negare a questa pellicola di Magni un certo grado di interesse e anche una certa complessità abilmente celata dietro le forme di una commedia semplice e leggera che, insieme a molte altre opere di registi diversi, ricerca agli inizi degli anni ’70 degli orizzonti nuovi per un genere che nel nostro Paese usciva dal suo decennio migliore”.
(Elio Ugenti, Sentieri Selvaggi, 22 Maggio 2009)
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