Il fatto che la regista, l’italiana trapiantata a Londra Nathalie Biancheri, abbia affermato di aver preso spunto per il suo Wolf da un fatto di cronaca in cui una donna soffriva di disforia di specie, sentendosi un gatto intrappolato in un corpo umano, non implica che la storia narrata sia da interpretare alla lettera. Si tratta infatti di una psicopatologia molto rara (e non riconosciuta come condizione clinica) che invece nel film sembra dilagante al punto da dover concepire una struttura di accoglienza specifica: ci troviamo quindi nel mondo del fantastico.
Un diverso approccio ridurrebbe Wolf ad un thriller ben girato, ben interpretato ma fatalmente sterile. Wolf è invece un film magnificamente suggestivo le cui immagini non si scordano facilmente e restano avvinte all’inconscio dello spettatore ben oltre la sua durata.
La clinica, che ospita adolescenti di diversa età, tutti convinti di essere animali, gestita da due psichiatri, un direttore sadico e folle e una dottoressa maldestra è una metafora che allude a una certa condizione umana e fa di Wolf un incubo ad occhi aperti, una fiaba nera.
L’aspetto più interessante del film sta soprattutto in quello che non dice, piuttosto che in ciò che appare fin troppo evidente. Con Yorgos Lanthimos condivide solo la surrealtà della situazione iniziale, cioè una sinistra struttura che ospita malcapitati in relazione con gli animali e trattati parecchio male (The Lobster), ma non il formalismo tagliente, spiazzante e crudele del regista greco.
Il film di Biancheri è invece un lavoro dalle suggestioni etiche e morali. Un’Arancia Meccanica che mostra come, a fin di bene, si possa creare sofferenza nel tentativo di omologare e pensare che la giusta via per la realizzazione e la felicità sia una soltanto e che, come il capolavoro di Kubrick, rovescia i ruoli trasformando i rappresentanti di giustizia e salute in aguzzini.
Portati nella sinistra clinica riabilitativa da bravi genitori che vorrebbero i propri figli felici e la felicità, come è ben noto, si raggiunge soltanto in modo canonico, cioè trovando un buon lavoro e mettendo su famiglia, i ragazzi che pensano di essere animali si impegnano a “guarire”.
Spicca tra tutti, anche per disciplina e buone intenzioni, Jacob, il ragazzo-lupo, interpretato da un George McKay (visto in 1917 di Sam Mendes) la cui eccezionale performance da sola varrebbe la visione del film. Il giovane, che proprio come l’animale di cui custodisce lo spirito non accetta finzioni e compromessi, diventa presto oggetto delle torture ” educative” dello psichiatra, ma trova lo stesso il modo per innamorarsi, ricambiato, di una bella e tormentata ragazza che si sente un gatto selvatico (Lily-Rose Depp, la figlia di Johnny Depp e della cantante Vanessa Paradis).
Emerge a questo punto la sostanziale differenza tra chi sceglie la metamorfosi in animale per sfuggire ai traumi del passato e chi non sceglie la propria diversità e natura, che ha un’origine mistica e imponderabile; tra chi può fingere di essere ciò che non è per quieto vivere e chi non può farlo senza snaturarsi. Infine, la divisione è tra chi soccombe, per paura, ai condizionamenti esterni e coloro che hanno il coraggio di andare controcorrente, costi quel che costi.
Wolf non fa solo rabbrividire di fronte alle ingiustizie, ma ci pone di fronte ad una serie di accostamenti spassosi, come il ragazzo-cane che fa di tutto per compiacere l’uomo, ma proprio in questo conferma la sua natura canina invece di sfuggirle, o i passaggi dei documentari educativi che vorrebbero essere un esempio positivo ed invogliante e ci mostrano un mondo di sapiens tecnologici e patetici di fronte al quale chiunque preferirebbe essere uno scoiattolo o un cavallo.
Nel complesso, Wolf è una godibile ed emozionante allegoria delle assurde contraddizioni e incoerenze della società in cui viviamo, e rappresenta le costrizioni e condizionamenti a cui sottoponiamo involontariamente i nostri figli, per per un arrugginito concetto di bene e d’amore. Se non facilmente e non sempre il messaggio del film è esplicitato, il protagonista che, dopo essersi a lungo represso, emette un liberatorio ululato alla luna, parla con forza allo stomaco tutti noi, alla nostra società che sempre più inneggia a una diversità di forma ma mai di sostanza, a una autentica libertà di essere che sembra sempre più irrimediabilmente perduta.
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