Disponibile su Youtube Il bandito delle 11 (Pierrot le fou), un film del 1965 diretto da Jean-Luc Godard. Prodotto da Georges de Beauregard, sceneggiato da Jean-Luc Godard, con la fotografia di Raoul Coutard, il montaggio di Françoise Colin e le musiche di Antoine Duhamel, Il bandito delle 11 è interpretato da Jean-Paul Belmondo, Anna Karina, Graziella Galvani, Dirk Sanders, Samuel Fuller, Alexis Poliakoff, Roger Dutoit, Jimmy Kardubi, Krista Nell, Pascal Aubier, Raymond Devos, Pierre Hanin, Hans Meyer, Aïcha Abadie.
Jean-Luc Godard accreditò la leggenda di un film improvvisato sul momento, senza nessun copione prima dell’inizio delle riprese; in realtà si tratta di un progetto lungamente accarezzato in 18 mesi di gestazione, la cui prima traccia è un contratto firmato il 10 marzo 1964 per la cessione dei diritti del romanzo Obsession dello scrittore statunitense Lionel White, apparso in Francia nel 1963 con il titolo Le démon de onze heures, sul n. 803 della Série Noire di Gallimard. Il progetto iniziale prevede 27 sequenze ed è piuttosto fedele alla trama del romanzo; il trattamento, scritto su una cinquantina di fogli, è tra i più dettagliati del regista franco-svizzero. Esiste anche una sceneggiatura firmata da Remo Forlani, redatta per essere mostrata alla co-produzione.
Trama
Ferdinand, uomo sposato stanco della famiglia e degli amici borghesi, e Marianne, membro di una banda di delinquenti capitanata da un misterioso fratello, si ritrovano dopo cinque anni e dopo aver ucciso un mercante d’armi, scappano sulla Costa Azzurra, rifugiandosi su una spiaggia solitaria. La coppia vive di caccia e pesca, Ferdinand si dedica alla lettura, mentre la donna escogita trovate per sfogare la sua smania di vivere. Ma questa vita non fa per Marianne e tra i due esiste una radicale incomunicabilità, più forte del sentimento d’amore che li tiene vicini. Lascia Ferdinand, poi torna, chiedendo all’uomo di aiutarla per un colpo. Ferdinand accetta, ma la nuova azione gli dimostra l’abbandono da parte della donna che ha un nuovo compagno. Ferdinand stesso uccide entrambi e dopo essere sfuggito alla reazione degli altri sicari, si ucciderà, con la speranza di trovare in un altro mondo la possibilità di un’unione autentica con la donna amata.
“Ho avuto voglia di girare la storia dell’ultima coppia romantica, gli ultimi discendenti della Nuova Eloisa, del Werther e di Ermanno e Dorotea. […] Si tratta di un film del tutto inconscio. Non sono mai stato tanto inquieto prima delle riprese; non avevo nulla, proprio nulla… sapevo che la storia sarebbe terminata in riva al mare”.
(Jean-Luc Godard)
“Il nome del titolo – Pierrot le fou – designa un leggendario criminale francese del dopoguerra, spericolato e spietato, ma alla letteraevoca anche la maschera malinconica innamorata della luna e la scintilla della follia. Nel film di Jean-Luc Godard, Pierrot le fou diviene sinonimo dell’avventura romanzesca. Infatti è attribuito a Ferdinand (coniuge mantenuto e insoddisfatto di una ricca italiana) da Marianne, che lo seduce e sottrae al grigiore coniugale e borghese, trascinandolo in un lungo viaggio – numi tutelari i fumetti dei Pieds Nickelés (che Ferdinand legge continuamente). Gli scenari parigini e le scacchiere urbane, finora privilegiate da Godard, sono abbandonati per un itinerario nel Midi costellato di morti derisorie, pericoli e gag. Sulla falsariga di una trama noir di Lionel White del genere “amanti criminali e in fuga”, Godard inventa una nuova variazione dell’amour fou e dell’impossibile armonia amorosa fra uomini e donne, avvelenata dal tradimento e qui destinata alla morte violenta. Contempla la natura, immergendo i due amanti in un Eden illusorio (come già avveniva in Le Mépris e come accadrà in Nouvelle Vague). Cita Elie Faure, Laurel & Hardy, Rimbaud, Picasso, Pierre-Auguste Renoir, Hitchcock, Minnelli, Michael Powell, King Vidor, Michel Simon, Chaplin e soprattutto (sotterraneamente) Bergman, “ospita” Fuller e Devos, mima la guerra del Vietnam.
Adotta un iridescente ventaglio cromatico, dove i rossi, i verdi, i gialli, gli azzurri, i blu dominano il tessuto figurativo del film: “Che vediamo quando percorriamo Parigi di notte? Dei semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza doverli necessariamente mettere come sono nella realtà. Piuttosto come rimangono nel ricordo: macchie rosse, verdi, sprazzi gialli che scorrono. Ho voluto ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono”. Pierrot le fou chiude il periodo aperto da À bout de souffle e annuncia, ancora vagamente, la futura militanza politica di Godard. Contrariamente a ciò che si è creduto per decenni, un recente studio di Alain Bergala (Godard au travail. Les années 60, Cahiers du cinéma, 2006) ha dimostrato che fu realizzato dopo un’attenta e lunga preparazione preliminare. Il co-produttore italiano Dino De Laurentiis, rimasto allibito dal film, ne fece tagliare circa dieci minuti nell’edizione italiana e gli attribuì un titolo che riecheggiava quello della traduzione francese del romanzo di White (Le démon de onze heures)”.
(Roberto Chiesi)
“Pierrot le Fou porta agli estremi la frammentazione narrativa e visuale dei precedenti film di Godard, la dissoluzione della trama in una serie di gag, citazioni, immagini slegate, personaggi estemporanei e situazioni da videoclip al limite del genere musical. Godard si permette una libertà di scrittura che conferma i capolavori precedenti e anticipa i futuri; i tre film che lo precedono sono stati girati in bianco e nero, come pure il successivo, Masculin Féminin, mentre Pierrot le Fou è un film solare, mediterraneo, denso di colori molto saturi. Il suo carattere pittorico sta nel particolare trattamento dello schermo, sul quale forme e colori assumono composizioni quasi astratte, una tavolozza aperta a mille combinazioni. Frequenti sono le citazioni pittoriche, con immagini fisse di opere inserite nel montaggio, da Diego Velázquez a Auguste Renoir a Pablo Picasso, a fare da dichiarazione poetica e chiave di lettura della costruzione delle immagini del film. I colori particolarmente saturi sono dovuti al procedimento Techniscope introdotto nel 1965 che permette un’immagine a colori molto meno costosa delle tecniche precedenti, ma con un aumento del contrasto. Se per il precedente Una donna sposata si può cominciare a parlare di pop-art (è infatti a partire da quel film che Georges Sadoul conia il neologismo God-Art), qui entra in gioco piuttosto la scrittura automatica dei surrealisti, coniugata con una ricerca quasi “grammaticale” sul montaggio e sull’immagine”.
(Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro cinema, 2007)
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