La carriera cinematografica di Steven Spielberg va incontro ad una svolta tra il 1971 e il 1972, quando il giovane autore venticinquenne può finalmente realizzare ben tre film per la televisione, ciascuno della durata di circa un’ora e un quarto: Duel, Something Evil e Savage. Duel è giustamente noto per essere un apologo sorprendente, in grado di affermare una predilezione, quella del giovane autore in grado di trasformare una storia anche molto semplice in una vicenda emozionante. Il film si basa su un racconto breve di Richard Matheson, uno degli sceneggiatori della serie Ai confini della realtà, e ridefinisce un cinema avventuroso atipico, ma al contempo singolarmente espressivo di quegli anni: alle leggi prevedibili del film d’avventura si sostituiscono le regole deformante di un cinema iperreale che ricerca gli elementi più irrazionali evocandoli in maniera originale.
Duel evita di porgere spiegazioni dirette alle circostanze immediate, ad una quotidianità impazzita che non può non evocare la psiche del protagonista, il tranquillo commesso viaggiatore messo sotto assedio, e con lui lo spettatore, dal confronto che diventa un duello con il camion che lo segue e lo minaccia. Un confronto ossessivo e persecutorio lungo una strada che parte dalla grande città e si inabissa in una corsa lungo le sterminate periferie dopo che la radio del protagonista ha lasciato intendere molto bene le tensioni di una nuova convivenza in quelle abitazioni lasciate alle spalle (e si coglie già l’ironia di Spielberg, con la crisi d’identità dell’individuo contemporaneo anche ravvisabile nel riferimento radiofonico alla ridefinizione in atto dei ruoli della coppia).
Il film, che prende avvio con la fuoriuscita della vettura dal garage, da quel buio che è tutt’uno con lo schermo della sala cinematografica in attesa di essere illuminato, accoglie gli elementi più irrazionali del reale e tocca le corde del fantastico, rappresentato ad un certo punto dall’ingresso della minacciosa presenza di un’autocisterna guidata da un folle senza volto, intento a perseguire la morte del protagonista. Un fantasma di violenza senza tregua che arriva all’improvviso dal mondo degli incubi per mettere alle corde il tediato borghese al volante di un’auto rossa abituata a viaggiare entro i confini della (sua) realtà. Sono davvero pochi gli interpreti del film, sono volti poco conosciuti, e David Mann (Dennis Weaver) è il pacifico uomo comune, in auto sin dalle prime ore del giorno per attraversare il deserto californiano con la missione di portare a buon fine un affare importante. Durante il lungo viaggio la monotonia si trasforma in vera noia, con le soste alle stazioni servizio, dove l’autocisterna minacciosa inizia ad essere motivo di inquietudine, un doppio che non molla mai David, causando non pochi problemi. L’autocisterna infatti intralcia la marcia, lo supera, lo spinge a manovre pericolose. David cerca di comunicare con il misterioso camionista di cui non vediamo mai il volto, ma ben presto la situazione degenera: quando cerca di chiamare la polizia da una stazione di servizio, il camionista riduce al suolo la cabina telefonica e per poco David non rimane vittima di quel folle gesto. Ossessionato dal terribile nemico, David scopre così a sue spese che il suo inseguitore vuole un duello all’ultimo sangue. Vani sono i tentativi di capire perché quel camion si stia comportando in quella maniera. Il film di Spielberg, non dando risposta, apre spazio agli interrogativi, e la sua brillantezza, innanzitutto di linguaggio, per la padronanza del mezzo cinematografico, afferma il proposito di un cinema calato nel reale più inquietante, ad un passo dalla dimensione fantastica. Spielberg con Duel verrà riconosciuto, soprattutto dopo l’enorme successo de Lo squalo e di Incontri ravvicinati del terzo tipo, come il nome di punta di un cambiamento dei canoni hollywoodiani e, nello stesso tempo, come colui che, assieme ad un gruppo di altri registi, riporta Hollywood al grande successo, praticamente inventando il blockbuster cinematografico.
Ma se agli onori della popolarità si affiancherà anche un certo giudizio critico che tenderà a vedere in Spielberg il nuovo re Mida e non principalmente quel regista davvero intimamente e professionalmente coinvolto nel rinnovamento cinematografico, quello che si registra con il regista, anche rispetto ai canoni hollywoodiani di quegli anni, è un mutamento tanto nei contenuti quanto del modo di mostrarli: la nuova “meraviglia” del cinema è il poter mostrare ciò che prima poteva essere soltanto evocato, e allo spettatore è richiesta una partecipazione immersiva, un coinvolgimento nuovo e totalizzante, un contatto con paure ancestrali che hanno tutta la ferocia di una modernità a confronto con l’archetipico. Le pulsioni covano sottotraccia e finiscono per trovare una raffigurazione che il cinema, la tecnologia, permette. Al cineasta è chiesto anche il compito di crescere, di raffinarsi, di migliorare il dialogo con lo spettatore. Quella di Duel è anche una storia classica che ritorna, e la lotta tra Golia e Davide – David, come l’astronauta di 2001 Odissea nello spazio, è propriamente il nome del protagonista -, nella sequenza finale ci consegna la vittoria dell’uomo comune, il trionfo dell’astuzia del più piccolo contro il Moloch di ferro, con il personaggio il quale, inscenando una folle corsa diretta verso un precipizio, si getta dall’auto un istante prima della caduta nell’abisso, mentre il camion e il suo misterioso guidatore seguono l’auto nella rovinosa discesa. Ed è anche questo un “messaggio” del film, il suo potenziale catartico, il condividere un patto implicito con lo spettatore che si sente coinvolto in un viaggio verso l’abisso poi scongiurato dal riscatto del protagonista.
Se in Easy Ryder, manifesto del cinema come inno alla libertà ispirato alla contestazione giovanile, la strada è il luogo della scoperta e della liberazione di sé attraverso un continuo incontro-confronto con l’altro, in Duel la strada e la libertà sono elementi riconsiderati nella dimensione di in thriller metafisico, dove le grandi strade americane, già territorio di conquista e di stragi ai danni dei nativi, appaiono come luoghi di una caccia sanguinaria, territori bradi che lasciano esplodere le pulsioni di morte sopite o soltanto trattenute nelle regole geometriche delle grandi città. Spielberg, che mette alla prova la sua abilità, realizza subito uno dei suoi film più interessanti, un road movie puro, con un uso consapevole e affascinante della macchina da presa, che sembra quasi amatoriale, ma tecnicamente ineccepibile nei suoi movimenti che si collocano con grande abilità e tensione sui binari illogici e depistanti del confronto tra David e il fantomatico guidatore dell’autocisterna. Spielberg conduce il gioco attraverso la suspense, dando rilievo all’assenza, alla mancanza di un motivo per questa persecuzione ma anche alla mancanza di un volto per il guidatore dell’autocisterna e ad una spiegazione per quanto sta accadendo. Il regista attinge da qui per quel metodo che ritroveremo con Lo squalo, il giocare con il pubblico attraverso una progressiva rivelazione che attende a manifestarsi, e in questo film del 1971 il regista padroneggia benissimo piani-sequenza capaci di coinvolgere lo spettatore trascinandolo dentro le scene, permettendo quel riscatto dell’uomo comune messo sotto scacco dalla condizione domestica e dalla vita metropolitana (e a proposito di “repressione” e indolenza, ecco il riferimento in apertura alla telefonata con la moglie che lo rimprovera per essersene stato a guardare, la sera prima, quando ad una festa un uomo aveva allungato un po’ troppo le mani su di lei). La sfida e il desiderio non restano a sonnecchiare in Duel, anzi trovano raffigurazione in questo viaggio di rivalsa immaginario, dove attraverso le strade si coglie la linearità di un apologo che libera la sfera inconscia nella dimensione ordinaria, a tal punto che la creatura metallica potrebbe apparire come una proiezione fantasmatica del protagonista, il nemico di un estenuante duello che vede sulle strade la Plymouth Valiant del 1970 di David e l’autocisterna Peterbilt 281 del 1955. Niente di più perché rituale di un duello per lasciare sconfinare l’archetipico in un contesto di modernità, con il territorio brado delle vallate solitarie a far da coro a quella solitudine dentro la gabbia tecnologica (l’auto) in cui possono aver cittadinanza gli incubi.
Spielberg realizza Duel in sedici giorni anziché nei cinquanta previsti dalla produzione. Il regista fa riprodurre su un gigantesco cartellone lungo trenta metri e alto un metro e mezzo le linee drammaturgiche del film, descrivendo tutte le sequenze in modo dettagliato e in guisa di un fumetto: una mappa enorme che può essere consultata da tutti collaboratori con grande immediatezza. Il film, che dura settantatre minuti, viene presentato in televisione nel novembre del 1971. Due anni dopo la Universal edita una versione di ottoantotto minuti. Dopo i pareri favorevoli della critica e alcuni premi lusinghieri come il Gran Premio del Cinema Fantastico di Avoriaz, il film esce infine in una nuova versione di Novanta minuti. Lavoro abile ed essenziale, tesissimo e suggestivo, si presta subito ad una serie di interpretazioni in linea con il discorso culturale e le inquietudini dell’epoca, trovando tra i suoi ammiratori anche Federico Fellini. L’esordio di Spielberg, il suo veloce exploit a basso costo e ad alto contenuto di efficacia spettacolare, viene apprezzato anche perché indica un buon esempio per quella via produttiva funzionale a risollevare le sorti del cinema americano, dopo il crollo dello star-system e il finale di carriera dei grandi registi classici, pronto a rinascere sulle sue ceneri grazie a una nuova generazione di sperimentatori-intrattenitori. In Duel l’efficacia ossessiva della lotta per la sopravvivenza diventa chiave di volta per avvicinare spettatori diversi e lontani, ma il film, come il successivo Something Evil che rimarrà relegato alla destinazione televisiva, è un omaggio dichiarato alle convenzioni della suspense, declinate in una coloritura iperrealista. Vitale e fresco ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla sua uscita, Duel ha certamente un’importanza che va ben oltre le aspettative del suo regista, trovando una collocazione all’interno di un cinema che sta cambiando e che lo stesso autore, anche inconsapevolmente, contribuirà a trasformare, in corrispondenza con il mutamento dei gusti del pubblico ma anche delle regole, della produzione, verso quella New Hollywood che diventa, con il lavoro di cineasti come Lucas, Coppola o Scorsese, anche il portare a nuova visibilità quanto era implicito nella realtà mascherata dagli slogan del progressismo e ancorata alle attitudini dell’American Way Of Life.
E per chi volesse saperne di più sul cinema di Spielberg, si rimanda a Steven Spielberg. Tutto il grande cinema (WeidBook), un libro di Roberto Lasagna.
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