Disponibile su RaiPlay Dillinger è morto, un film del 1969 diretto da Marco Ferreri, presentato in concorso al 22º Festival di Cannes. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare. L’opera fu oggetto di polemiche alla sua uscita nei cinema a causa del soggetto trattato e della violenza ingiustificata insita in esso, ma con il passare del tempo viene ora riconosciuto come uno dei capolavori di Ferreri. Il film venne acclamato dall’influente rivista francese di cinema Cahiers du cinéma. Dal 1980 in poi il film è stato trasmesso in televisione solo in rarissime occasioni. Marco Ferreri incontrò per la prima volta il futuro protagonista Michel Piccoli, quando fece visita all’attore impegnato sul set del film La Chamade di Alain Cavalier (1968). Ferreri diede da leggere a Piccoli qualche pagina del copione di Dillinger è morto e l’attore, entusiasta, si candidò immediatamente per la parte. Piccoli disse che Ferreri non gli diede particolari indicazioni sul come interpretare il ruolo di Glauco ma solo brevi cenni per indirizzarne la recitazione. Il regista lasciò la più completa libertà all’attore di intendere il personaggio come meglio credeva. In origine il copione era stato offerto all’attrice Annie Girardot, che doveva essere la protagonista del film, ma l’attrice, non sentendosela di interpretare un ruolo tanto complesso, preferì ritagliarsi il ruolo meno impegnativo della cameriera. Scritto e sceneggiato da Marco Ferreri e Sergio Bazzini, con la fotografia di Mario Vulpiani, il montaggio di Mirella Mercio, le scenografie di Nicola Tamburro e le musiche di Teo Usuelli, Dillinger è morto è interpretato da Michel Piccoli, Anita Pallenberg, Gino Lavagetto, Carla Petrillo, Mario Jannilli, Annie Girardot, Carole André, Adriano Aprà.
Trama
In una calda sera d’estate, Glauco, un disegnatore industriale sulla quarantina, ritorna a casa dal lavoro e trova la moglie a letto per una lieve indisposizione. In sala da pranzo lo attende una cena fredda poco invitante. Con l’aiuto di un libro di cucina, l’uomo decide di prepararsi un piatto di suo gusto. Mentre cerca gli ingredienti necessari da un armadio salta fuori un pacchetto avvolto in vecchi giornali. Dall’involucro esce una pistola a tamburo arrugginita. L’uomo la olia, la dipinge di rosso e la carica, poi si reca nella stanza dove c’è la moglie.
Dillinger è morto si apre, sulla scia di un cinema vagamente godardiano, con un prologo che mette in guardia lo spettatore sul senso di ciò che si appresta a vedere, fornendogli, dunque, dei riferimenti per comprendere una rappresentazione surreale, la quale, per la rarefazione dei dialoghi e la disarticolazione della narrazione, può provocare un certo disorientamento in chi guarda. È subito evidente la forte connotazione metaforica evocata dal monologo del collega del protagonista (Glauco, un ingegnere industriale, interpretato da un sardonico e sempre eccellente Michel Piccoli) che tenta di esporre il proprio pensiero, ricco di rimandi a L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
“L’isolamento in una camera che non debba comunicare con l’esterno, perché piena di un’atmosfera mortale dove per sopravvivere è necessario portare una maschera, ricorda molto le condizioni di vita dell’uomo contemporaneo. Per esempio, il fatto di sapere di dover portare la maschera non dà un senso di angoscia? L’introiezione di questi bisogni ossessivi e allucinatori non dà come risultato l’adattamento alla realtà, ma la mimesi, la massificazione, l’annullamento dell’individualità. L’individuo trasferisce il mondo esterno all’interno. Vi è un’identificazione immediata dell’individuo nella società, come un tutto identico. I bisogni per la sopravvivenza fisica sono risolti proprio dalla produzione industriale, che propone ad esso come altrettanto necessari il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi, di consumare in accordo con i modelli pubblicitari che rendono appunto manifesti i desideri che ognuno può provare. In queste condizioni di uniformità la vecchia alienazione diventa impossibile; quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa compiacimento e soddisfazione il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata”.
Con questa robusta premessa, dunque, si dà inizio alla messa in scena di alcune ore della vita di un uomo che, ormai, è svanito in quanto soggetto, è stato definitivamente sussunto dalla logica del capitale, che lo vuole produttore, consumatore, e che ne scandisce finanche la dimensione privata, imponendogli il tempo delle vacanze e del relax, condizionandone interamente lo stile di vita. Ciò che provoca più irritazione nella condotta dello sciagurato protagonista è, ancor prima di tante altre considerazioni che si potrebbero fare, l’incapacità di portare a compimento un’azione. Egli interrompe sistematicamente tutto ciò che inizia a fare, come se fosse in preda a un’irresistibile coazione a distrarsi. Non riesce a concentrarsi, rilancia continuamente, apre innumerevoli fronti verso cui orientare, per brevissimo tempo, la propria attenzione. Alla maniera del Luis Buñuel de Il fascino discreto della borghesia (film successivo a questo di Ferreri), seguiamo Glauco nei preparativi di un pasto che non riuscirà mai a consumare: il godimento che esso gli potrebbe procurare è sempre differito, esattamente come vuole la legge dei consumi, che, ogni volta, promette che la soddisfazione del bisogno sarà garantita dal nuovo prodotto messo in commercio. Insomma, la dimensione tragicomica del progresso è già visibile in tutta la sua stoltezza e Marco Ferreri, prima di tanti altri, ne aveva colto con chiarezza i tratti e la drammaticità, sebbene sempre sfumata con i toni del grottesco.
E poi, ovviamente, lo stadio finale della feticizzazione dell’oggetto: il soggetto del consumo si è dissolto completamente nell’oggetto, è divenuto esso stesso merce tra le merci, immagine tra le immagini, come esemplarmente mostrato quando lo vediamo interagire con lo schermo su cui è proiettato il filmino delle vacanze. Glauco nuota nelle onde del mare riprese in super otto, tocca il corpo della sua donna impresso sulla parete, insomma è in pieno delirio, non percepisce più la sua alterità rispetto a ciò che potremmo definire imago sub specie spaectaculi. È evaporato, esattamente come il Padre di cui parlava Jacques Lacan nei suoi celebri seminari. La donna che ama (Anita Pallenberg) non ha più per lui consistenza ontologica, è svanita nel flatus vocis di un mondo che non fornisce orizzonti di senso, se non quello del godimento del consumo. Glauco, perfettamente allineato con l’ultimo stadio del nichilismo, quello “passivo”, assai bene descritto da Nietzsche, non “vuole più volere”, perché la Legge (del Padre) è venuta a mancare, e con essa la possibilità di un desiderio autentico e non indotto dall’esterno. Vivere o morire non fa più una grande differenza, tant’è che, quasi per sfuggire alla noia della sua insensatezza, uccide la moglie con una pistola trovata per caso precedentemente e che, in maniera grottesca, aveva cercato di “riqualificare” alla maniera della Pop Art, dipingendola e decorandola. Poi, la fuga, il mare, il viaggio esotico, come possibilità estrema, sebbene effimera, di evasione.
Certo, probabilmente, oggi questa analisi esatta di Ferreri dovrebbe essere aggiornata, almeno in riferimento ai tanti cambiamenti avvenuti, anche se il fondamentale sfondo in cui si muove il soggetto contemporaneo rimane sostanzialmente lo stesso. A mutare le previsioni del futuro interviene, in parte, la possibilità di pensare un nuovo profilo comunitario in grado di rovesciare a proprio favore quanto, al momento, appare come l’ennesima dimostrazione di una vita totalmente sussunta da quell’alienazione di cui si diceva prima. Forse, non è del tutto fuori luogo pensare di poter scommettere, a ragione e in virtù di un mutamento etico in corso, sul delinearsi di nuovi sentieri possibili da percorrere.
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