La vita e la morte: Agnieszka Wójtowicz-Vosloo lega in un respiro mortale la natura contraddittoria dell’essere umano in un adagio dolce amaro. La cinepresa, puntata sui volti, fissa il tormento dell’ignoto negli occhi avvolti da una rassegnazione quasi curiosa di un’eterea Christina Ricci, che infonde nello spettatore lo spietato panico del passaggio ultra terreno; presenza paterna e rassicurante è quella dell’accattivante Liam Neeson, che con attraente determinazione ed elegante sadismo conduce per mano la confusa Anna, insegnandole l’accettazione per l’altra esistenza.
Luci fredde, quiete, avvoltolano le mura perlacee di asettiche stanze, in contraddizione con tinte setose vermiglie, che accarezzano le carni femminili della protagonista e che sembrano voler aggrapparsi alla passione e alla vita, quasi a voler preservare le delicate membra, dall’eterno freddo. Dialoghi sussurrati, alterati da inflessioni drammatiche, si avvicendano in un mesto rispetto, rimandando un senso di impotente fragilità di fronte all’inevitabile evento e conferendo alla pellicola profondità, suscitando sensazioni di angosciosa ribellione.
Una macchina fotografica immortala e scolpisce nudi esanimi e cerulei in un ultimo respiro infinito, scandendo, ad ogni flash, gli attimi che attendono ad un’eterna immobilità.
La regista con After.Life pone l’accento su una macabra ossessione per la morte, che Neeson arricchisce con riti improntati ad una delirante e quasi sacra perfezione: una mania torbida che la regista fa saltare fuori già nell’anno 2006, con The Underhearth: a sensual obsession, dove una raffinata perversione getta le basi per la sua idea di morbosa inquietudine verso un oscuro richiamo per il gioco luce/buio, che altro non è che lo specchio della mente in cui attrazione e repulsione giocano verso quel sonno/veglia eterno.
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