Disponibile su RaiPlay Pasolini, un film del 2014 diretto da Abel Ferrara, che si concentra esclusivamente sulle ultime ore di vita di Pier Paolo Pasolini. Pasolini è interpretato da Willem Dafoe e il ruolo di Ninetto Davoli è di Riccardo Scamarcio. Nel cast è presente anche lo stesso Davoli, nel ruolo di Eduardo De Filippo. Il film, che ha partecipato alla 71ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e al Toronto International Film Festival e i cui dialoghi sono in tre lingue (italiano, francese, inglese), mostra episodi reali ed immagini dal sapore onirico di scene immaginate dallo stesso Pasolini nelle sue opere. Il film è stato distribuito nelle sale italiane il 25 Settembre 2014 dalla Europictures. In Italia il film ha avuto un buon successo come negli Stati Uniti. Con Willem Dafoe, Valerio Mastandrea, Adriana Asti, Maria De Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Ninetto Davoli, Salvatore Ruocco.
Trama
Le ultime 24 ore della vita di Pasolini fino all’alba del 2 novembre 1975, quando il suo corpo senza vita viene ritrovato all’idroscalo di Ostia. E anche le (ri)costruzioni immaginate di un possibile film tratto da Petrolio e di Porno-Teo-Kolossal. In concorso a Venezia.
“Sono cresciuto vedendo i suoi film e certo lui non è cresciuto vedendo i miei. Io sono buddista e il mio insegnamento è che si medita sul proprio maestro: io ho assorbito il suo lavoro e facendo questo film, incontrando le persone che lo hanno amato e conosciuto e dirigendo Ninetto (Davoli), mi sono avvicinato al mio maestro. Molte delle cose dette in passato non passano un esame accurato. Ci sono ancora oggi questioni confuse. Un’inchiesta letteraria non è un’inchiesta giudiziaria e io lo dico come amico e collaboratore di Saviano. Al centro del film abbiamo messo i fatti certi anche perché crediamo che il processo del 1976, conclusosi con la sentenza di omicidio a carico di Pelosi in concorso con ignoti, sia giusta. Non ho fatto un lavoro di imitazione ma neanche di interpretazione, ho cercato di abitare la sua vita e di incarnare le sue azioni e le sue riflessioni in quelle ultime ore provando sentimenti forti e complessi. Pasolini era un uomo contro. Era un omosessuale nel periodo prebellico, ha vissuto la dittatura del fascismo e poi sotto gli americani si è scontrato con il consumismo. Era un personaggio che apparteneva a un’altra epoca, a un’altra generazione, come mio padre e mio nonno. Non avevano paura di nulla e P.P.P. era ogni giorno in tribunale. Tutto quello che faceva era nel mirino dei critici o della giustizia. Avrà avuto 32 o 33 denunce. Ma gli entravano in un orecchio e gli uscivano dall’altro. Ha sempre seguito le sue idee come i cavalli con i paraocchi. Pier Paolo voleva rappresentare un certo tipo di cinema, non violento, diciamo reale e questo sconvolgeva la gente”.
(Abel Ferrara)
“Un progetto coltivato da moltissimi anni, questo Pasolini secondo Abel Ferrara. Il cinema di Abel Ferrara, nel rispetto dei codici di genere e produttivi, è come se nascesse già compiutamente manierista. È la violenta visceralità del suo sguardo e del suo approccio alla materia del noir a scavalcare la forma al punto da incrinarla e a insinuare che anche in opere non perfettamente bilanciate pulsasse dell’altro. Coloro che imputano anche a Pasolini un mancato controllo formale da parte di Ferrara, accennando a momenti estremamente riusciti e ad altri che sembrano invece quasi improvvisati nella loro crudezza e approssimazione, pur centrando quello che è ormai il cuore stesso del gesto filmico ferrariano, non riescono a coglierne il senso e di conseguenza faticano ad accettare che è esattamente in questo spaesamento che si colloca il fare cinema di Ferrara. Rispetto alla regola del biopic hollywoodiano e di quello del cinema civile italiano, Ferrara non si presenta né con rivelazioni inedite né tanto meno offre il suo film con i crismi di un’operazione filologica. Pasolini secondo Ferrara è soprattutto un luogo. Una pura creazione filmica. Ed è in questo luogo, nel quale si accede da diverse strade, essendo questo un luogo aperto, poroso, che Ferrara costruisce un racconto lirico, come un saggio in forma di poesia. Abbracciando senza alcuna remora i precetti pasoliniani del cinema di poesia, Ferrara non rinuncia certo a dichiarare che quanto vediamo sullo schermo non è il poeta friulano ma l’immagine che di lui ha creato un regista e che pertanto va letta e giudicata non rispetto ai suoi presunti indici di realtà ma in funzione del lavoro necessario a crearla. Purissimo e commovente film saggio, nel quale a tratti si ha quasi l’impressione di percepire il respiro di Ferrara dietro le immagini, Pasolini gioca audacemente lo scarto fra immagine e verosimiglianza lasciando che sia sempre lo spettatore a organizzare le fila delle immagini. Ferrara, lui apre tutte le finestre e il mondo entra da ogni parte. E quest’invasione è proprio una delle ragioni portanti del film. Il film non è solo proprio come non lo è il mondo e come non può esserlo il regista. Nel fare, nel lavorare, ci si contamina. Si diventa altro. E anche Pasolini non è più Pasolini. Intitolandosi semplicemente Pasolini, e spingendo così sino al limite estremo l’identificazione fra il film (in quanto oggetto) e il poeta, Ferrara è come se spostasse il tentativo di un ritratto non rispetto alla storia messa in scena quanto al lavoro necessario a realizzarlo. Come dire che è il processo stesso ad aspirare a essere pasoliniano. Lì e non altrove vive la lezione e la voce non conciliata del poeta. Non si tratta quindi di mimetismo, nonostante l’altissima prova di Willem Dafoe, apice di una carriera esemplare, ma di comprensione e compassione. L’attore, infatti, spingendo verso una somiglianza quasi mimetica, aiutato anche dai consigli e dai ricordi di Ninetto Davoli, arricchendo la performance dell’attore di dettagli come la catenina visibile al collo, è come se invocasse non una sospensione dell’incredulità ma rivelasse chiaramente l’artificio della creazione attoriale. Willem Dafoe, infatti, interpreta Willem Dafoe che si cala nel ruolo di Pasolini. Pasolini, il poeta ucciso a Ostia, è l’assenza. L’immagine non vista ma sempre evocata. Pasolini, il film, assume lucidamente su di sé questa assenza e la erge a fulcro sul quale far muovere tutte le figure che concorrono al gioco del sortilegio e dell’incanto: rendere visibile l’invisibile. Ed è solo in quest’angolo di mondo, apparentemente sottratto alle regole riconosciute e condivise del cinema, che la libertà stessa del fare cinema torna genuinamente a provocare scandalo, ossia a essere sottratta all’influenza dei linguaggi dominanti. Scelta, questa, inutile sottolinearlo, essenzialmente pasoliniana. Solo in un luogo dove si discontinua il “parlare-cinema” maggioritario è possibile ipotizzare un’altra parola in grado di tracciare differenze significative. Ferrara, come mettendo in scena un paradossale analfabetismo di ritorno – tanto radicale, infatti, è lo scarto del suo film rispetto al panorama cinematografico attuale – filma il suo Pasolini come da un luogo virtualmente privo di cinema, ritrovando in questo modo una struggente purezza cittiana”.
(Giona Nazzaro, www.temi.repubblica.it/micromega, 28 Settembre 2014)
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