Disponibile su RaiPlay Daguerréotypes, un film di Agnès Varda del 1978. Il nome del film è un gioco di parole complesso: la strada, Rue Daguerre, prende il nome da Louis Daguerre, inventore del metodo Dagherrotipo di stampa fotografica. Varda si prendeva cura di suo figlio di due anni al momento delle riprese e non poteva trascorrere lunghi periodi lontano da casa sua. Per questo motivo, l’intero film è confinato entro un raggio di 90 metri (300 piedi) dalla sua casa. Con una voce fuori campo, la regista spiega che gli imprenditori e gli occupanti di Rue Daguerre sono i suoi “tipi”, in riferimento a tipologie sia come stile fotografico che pratiche di classificazione sociale. In vari punti i soggetti assumono una posa formale e statica, come nei ritratti fotografici della metà del XIX secolo. Soggetto e sceneggiatura di Agnès Varda, fotografia di Nurith Aviv e William Lubtschansky, montaggio di Gordon Swire e Andrée Choty, suono di Jean-François Auger e Antoine Bonfanti, missaggio di Maurice Gilbert. Daguerréotypes è interpretato dai commercianti della rue Daguerre. Restaurato nel 2014 da Ciné-Tamaris presso i laboratori Éclair, con il sostegno del CNC.
Trama
Agnès, insieme alla figlia Rosalie, esce in strada e filma. La strada è Rue Daguerre, nel 14° arrondissement, dove ha abitato per cinquant’anni. La sua cinepresa interroga le vite di bottega, i negozianti della via, cerca e trova la concreta poesia delle baguettes croccanti, delle bistecche fresche di taglio, delle stoffe cucite a mano. Intanto ascolta storie, che sono talora storie di migrazioni, di gente che ha cercato e trovato un posto nel mondo. Sì, se ci aspettiamo il fascino di una Parigi che non c’è più, l’attesa è ripagata.
Daguerréotypes non è un film sulla rue Daguerre, pittoresca via del 14° arrondissement, è un film su un pezzetto di quella strada, tra il civico 70 e il civico 90, è un documento modesto e locale su alcuni piccoli commercianti, uno sguardo attento sulla maggioranza silenziosa. È un album di quartiere, sono ritratti stereo-dagherrotipati, sono archivi per gli archeo-sociologi dell’anno 2975. Come nella rue Mouffetard, dove ho girato il mio Opéra-Mouffe, Daguerréotypes è il mio Opéra-Daguerre.
(Agnès Varda,1978)
Intorno al 1973 Eckart Stein della ZDF mi aveva dato carta bianca per il suo programma più o meno di nicchia e io gli avevo espresso il mio desiderio di filmare oggetti, persone immobili e perfino volti di defunti. Nella via in cui abitavo c’era poi un negozio che mi affascinava, Le Chardon Bleu, le cui vetrine erano immutabili, come la morte di un negozio. Eppure vendeva normalmente articoli di merceria e profumi al litro. Il pretesto per iniziare il film mi fu fornito da un mago che incollò nel caffè del quartiere un manifesto che annunciava il suo spettacolo per il sabato successivo. Agitai in direzione di Magonza la mia carta bianca che si trasformò in un assegno. Tirammo fuori le nostre riserve, l’INA mise il resto. Così è nato Daguerréotypes, un film sui commercianti del mio isolato in fondo alla rue Daguerre, lato avenue du Maine, riuniti da Mr. Mystag per uno spettacolo al caffè (senza aumento del prezzo delle consumazioni).
(Agnès Varda,1994)
Non mi interessava fare un film politico. Non sono andata a chiedere: E il fisco? E le tasse? E il futuro? Non vuole che cambi qualcosa? Come vota? Ho invece cercato un approccio del tutto quotidiano, cercando di cogliere il modo di vivere di queste persone, i loro gesti.
(Agnès Varda, 1975)
Ho fatto tirare un filo elettrico dal contatore di casa mia, era lungo novanta metri. Ho deciso di girare Daguerréotypes entro quella distanza. Non volevo andare più in là del mio filo. Avrei trovato qualcosa da filmare là, e non oltre. Ho capito solo qualche tempo dopo perché i miei vicini mi affascinassero tanto. Il fatto è che filmandoli avevo potuto restare vicina a quel bambino che ero riluttante ad affidare a una babysitter e che non volevo lasciare. Ciò che era stato dettato da esigenze organizzative rivelava ben altro. Per esempio, per non disturbare i commercianti illuminavamo i negozi agganciando al nostro contatore un grosso cavo elettrico che andava da casa nostra alle loro attività passando per la fessura della cassetta delle lettere. Il cavo era lungo novanta metri, impossibile illuminare e filmare oltre. In seguito ho ripensato a quel filo che mi aveva tenuta attaccata alla casa e al piccolo Mathieu. Era il cordone ombelicale, non era stato ancora veramente tagliato!
(Agnès Varda, 1994)
Ho tentato di combinare tra loro fiction e documentario. È un errore credere che il documentario sia più facile del film di fiction. Al contrario, richiede un’opera più precisa di registrazione, di selezione e poi di ricostruzione. Molto più tempo, pazienza, attenzione e sforzi. Sia come autore di documentari, sia come autore di fiction, ci si trova comunque in quella stimolante no man’s land che divide la cosa rappresentata dalla rappresentazione. Ne deriva un continuo e difficile va-e-vieni, per cui la mia collocazione non si è mai precisata una volta per tutte.
(Agnès Varda, 1983)
Non credo al cinéma-vérité. Anzi, non credo neanche al documentario oggettivo. I documentari sono tutti soggettivi. Caratteristica del documentario è che il soggetto principale è proprio il soggetto, o il gruppo o la casa che si vuol far vedere. Tendo a sentire nello stesso modo il desiderio di fare documentari o fiction, mescolando le tecniche e gli stili. Mi piace molto fonderli insieme. Tuttavia resta una differenza fondamentale nel documentario: il soggetto non sono io o il mio stile, ma il soggetto stesso. E necessario che questo predomini, anche se la mia interpretazione sarà soggettiva. Nella fiction predominano le mie emozioni, i miei istinti, in cui vengono poi a inserirsi alcuni elementi documentaristici.
(Agnès Varda, 1986)
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