Dieci anni fa usciva Lincoln (2012), un film che varrebbe la pena di rivedere con distensione e attenzione, per cogliere il monito rivolto alla contemporaneità lanciato dal regista Steven Spielberg, nelle sale italiane dal 22 dicembre con il nuovo e autobiografico The Fabelmans. Dopo War Horse, dopo la lettura del tempo attraverso il respiro fordiano, il regista dimostra che si può raccontare la Storia con stili diversi, in questo caso con un racconto asciutto attorno ai mesi che precedettero nel 1865 l’approvazione del Tredicesimo Emendamento portando all’abolizione della schiavitù, con la fine della guerra tra gli stati del sud e quelli del nord. Nel cesellare come un dagherrotipo il racconto dei fatti attorno a uno dei simboli americani per eccellenza, Spielberg propone nel 2012 delle elezioni americane la ricognizione di un momento storico fondamentale per i diritti dell’uomo, con la figura di un presidente repubblicano riconosciuto come un architrave della democrazia statunitense; il cineasta realizza con Lincoln quel rigoroso film storico e dialettico in cui il teatro delle dispute politiche si rivela come imprescindibile per tentare, con ogni mezzo, di approvare l’emendamento che portera’ all’abolizione della schiavitù.
Rieletto per un secondo mandato, Lincoln si ritrova in un groviglio di giochi politici e intende porre fine alla schiavitù prima della fine della guerra. Con lui, il Segretario di Stato Seward e il deputato Stevens tentano ogni strada per scuotere le rigidità del pensiero arretrato e modificare un oscuro capitolo della Storia. Lincoln è dunque la testimonianza ricostruita dagli ultimi mesi di vita del presidente, un film che si sorregge su una sceneggiatura raffinata abilmente incentrata su questo periodo contraddittorio. Attraversato dalla performance maniacale di Daniel Day-Lewis nei panni del presidente, il film è un racconto volutamente selettivo, di come il Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America fu approvato con una maggioranza di soli due voti, e grazie ad essi si poté realizzare l’America del Sogno, quella del trionfo della democrazia sull’ingiustizia. In questo racconto misurato e composto, la dignità della figura di Lincoln è quella dell’avvocato che parlava per sciarade, che venne più volte contestato e a cui però si deve una delle più grandi rivoluzioni dell’umanità: l’abolizione della schiavitù per i neri, per cui egli fu poi ucciso. Con la sceneggiatura ricca e carica di sfumature di Tony Kushner (già autore di Munich), al film, che si apre sulle violenze del campo di battaglia, non occorrono le frustate per far capire quanto un popolo abbia sofferto, e il film anzi si concentra sui tormenti di un uomo che, nonostante i grandi poteri, ha bisogno della collaborazione di altri politici per far passare un messaggio di giustizia.
Così come accade ancora oggi, Lincoln mostra come i politici in aula si insultavano senza risolvere nulla, rimandando la discussione e l’approvazione delle leggi fondamentali per la vita civile, e lo stesso presidente è costretto a corrompere deputati, in un racconto in cui la parola si esprime in diatribe familiari, nello scontro tra le parti avverse e persino dentro il proprio stesso schieramento. Oggi Spielberg non ha bisogno di far partire i colpi che crivellano i corpi come in Schindler’s list per raccontare tutta l’urgenza del proposito di Lincoln, che lavorò per trovare accordi e porre fine a un conflitto che falcidiò intere generazioni. La grandezza politica dell’uomo è un monito di dignità e un modello a cui dovrebbero guardare, secondo Spielberg, i politici del nostro tempo, ricordando l’abilità, la pazienza e il senso dell’umorismo di un individuo che seppe condurre un partito diviso, un congresso e un governo partecipato da figure politiche che furono sue rivali nella corsa alla presidenza. Nella sua qualità originale di “dramma politico da camera”, Lincoln conserva un piglio pedagogico portando serrati duelli verbali al servizio della verità e del bene collettivo, nel trionfo di un film della parola, dove il ritratto per nulla agiografico del presidente, portato in scena con abile sottrazione da un dinoccolato Daniel Day-Lewis che giganteggia per uno dei suoi ultimi ruoli al cinema, lascia emergere il confronto tra l’uomo e il mito, tra l’individuo e le sue enormi responsabilità. Evitando il calligrafismo, Lincoln è il ritratto integro di una visione che unisce l’idealismo del grande protagonista storico alle necessità della realpolitik, preciso nei movimenti di macchina e nella definizione delle emozioni sopite, che rifugge la messa in scena spettacolare a cui siamo abituati in Spielberg, e si libera delle atmosfere di cupezza durante il climax dell’approvazione del tredicesimo emendamento. La guerra e la stessa uccisione di Abramo Lincoln avvengono lontano dai riflettori, ma nondimeno sono incubi che lasciano il segno in maniera devastante sullo stato d’animo che si respira in queste pagine di Storia adattate evitando cliché e soluzioni risapute.
Ma la vera scommessa riuscita per Spielberg – qui coadiuvato da un cast che comprende un Tommy Lee Jones, finalmente grande attore nel ruolo veritiero del leader repubblicano Thaddeus Stevens, ma anche Sally Field, moglie dolente dell’inflessibile presidente, e James Spader, un procuratore incaricato di ottenere i voti necessari per l’approvazione del tredicesimo emendamento – è nella raffinatezza stilistica che si trasforma in virtù dialettica, con cui il cineasta riesce ad essere il narratore capace di non banalizzare né tantomeno di semplificare i grandi temi della propria nazione. Una virtù che, evidentemente, Spielberg riconosce a Lincoln. Le ombre rischiarate dalla dialettica sono oggi il punto d’arrivo di un cineasta la cui proverbiale immediatezza e la cui limpidezza paiono al servizio del racconto storico e pedagogico anche nei successivi Il ponte delle spie e The post.
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