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Disponibile su RaiPlay Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, con Gian Maria Volonté

Luca Biscontini Articoli Dic 3rd, 2022 0 Comment

Disponibile su RaiPlay Cristo si è fermato a Eboli, un film del 1979 diretto da Francesco Rosi, tratto dal romanzo omonimo di Carlo Levi e interpretato da Gian Maria Volonté. Fu presentato fuori concorso al 32º Festival di Cannes. Del film esistono due versioni: quella cinematografica di 150 minuti, distribuita nelle sale italiane a partire dal 23 febbraio 1979, e quella televisiva di 270 minuti (4 ore e mezzo). Il film è attualmente disponibile online sul sito RaiPlay nella versione televisiva in quattro episodi. Cristo si è fermato a Eboli vinse il Chicago International Film Festival, due David di Donatello (miglior film e miglior regista, il Gran Premio al Festival di Mosca, due Nastri d’argento (miglior attrice non protagonista), il National Board of Review (miglior film straniero) il Syndicat français de la critique de cinéma (miglior film straniero), un Bafta per il miglior film non in lingua inglese. Prodotto da Franco Cristaldi e Nicola Carraro, con il soggetto di Carlo Levi, Tonino Guerra e Francesco Rosi, la sceneggiatura di Tonino Guerra, Raffaele La Capria e Francesco Rosi, la fotografia di Pasqualino De Santis, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le scenografie di Andrea Crisanti, i costumi di Enrico Sabbatini e le musiche di Piero Piccioni, Cristo si è fermato a Eboli è interpretato da Gian Maria Volonté, Paolo Bonacelli, Alain Cuny, Lea Massari, Irene Papas.

Trama
1935. Il medico-pittore torinese Carlo Levi, condannato al confino dalla dittatura fascista, accompagnato da due carabinieri, scende dal treno alla stazione di Eboli: “Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”. Il viaggio prosegue in pullman e quindi in automobile. Raggiunto Gagliano, Carlo inizierà le sue piccole passeggiate in compagnia del cane Barone. Lentamente prenderà contatto con la popolazione che finirà per imporre, tanto a lui quanto al podestà fascista, di esercitare la professione di medico. Visitato dalla sorella Luisa, prenderà alloggio in una casa ove lo servirà Giulia. Si darà alla pittura. Scambierà parole con gli abitanti, con il podestà, con il misterioso Don Trajella. La conquista dell’Abissinia gli porterà la libertà. Tornato a Torino carico di ricordi, scriverà il libro che fa da soggetto al film.

“La complessità di questo film non è tanto nelle forme espressive adottate da Francesco Rosi per rendere le reazioni interiori del protagonista a contatto con una realtà ancestrale di cui non aveva mai neppure immaginato l’esistenza, quanto nell’esteriorità ed interiorità di questo mondo desolato, immobile, apparentemente atono e disperato ma non privo di luminosità insospettabili: la vita dei contadini legata al fluire dei ritmi della natura, la religione vissuta spesso come superstizione, la magia venerata al posto di una scienza non conosciuta o male presentata, le necessità vitali a provocare le emigrazioni e i lucani naturali a determinare vacue nostalgie o fallaci ritorni, il senso di emarginazione rispetto all’altra Italia in cammino su strade di falsi imperialismi o avviata a sviluppi non adottabili, la tragica percezione di un fenomeno di dissoluzione della terra e della vita insieme. Come sempre, in casi analoghi, la critica può essere fatta con severi raffronti all’opera letteraria che ha dato origine al soggetto o con paragoni ad opere analogamente impostate su realtà corali viste socialmente, etnicamente, politicamente, moralmente (e in questo caso L’albero degli zoccoli e La terra trema sono i titoli che per primi si impongono). Ma il film è quello che è: forte, sobrio, impressionante, eloquente, ben interpretato e ben diretto. Le critiche comparative, come certe analisi pignole ne sminuirebbero la portata di documento appassionante, purtroppo ancora di attualità, tutto da meditare.”
(Segnalazioni cinematografiche, vol. 87, 1979)

“Rosi è un uomo del Sud, un intellettuale, che si serve della sua cultura e della conoscenza della sua terra per raccontarne aspetti controversi in una prospettiva politica e sociale. Film come La sfida (1958), Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Lucky Luciano (1973), Cadaveri eccellenti (1976) narrano vicende paradigmatiche e riescono a definire un universo simbolico altamente rappresentativo del Mezzogiorno.«Se Leonardo Sciascia – spiega Gian Piero Brunetta – aveva parlato di ‘sicilitudine’ («forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia»), ossia della riconsiderazione della Sicilia come di una realtà non separata, ma capace di diventare paradigma e spazio topologico con caratteri universali, per Rosi si potrebbe parlare di ‘meridionalitudine’, ossia di un insieme di mentalità e comportamenti propri di una realtà geografica circoscritta che si moltiplicano, sono esportabili, si proiettano nello spazio, attecchiscono facilmente su qualsiasi terreno e agiscono da modificatori dei processi economici, storici, politici e sociali su scala nazionale e internazionale».

Il Cristo di Levi a un primo sguardo sembra lontano dagli interessi di Rosi e, come detto, la realtà meridionale di fine anni Settanta era molto diversa da quella raccontata nel romanzo. Il regista, tuttavia, non ha intenzione di condurre un’immersione nel passato fine a se stessa, ma, come ha diverse volte dichiarato, vuole far emergere il particolare isolamento che ha interessato il Mezzogiorno fino al dopoguerra e che è all’origine di alcuni suoi tratti nel presente.«Girare un film del genere – ha spiegato Francesco Rosi, intervistato da Pasquale Iaccio – significa far capire al grande pubblico, attraverso un mezzo di comunicazione più diffuso di quello che può essere la parola scritta del grande Levi, perché mai, fino a pochissimi decenni fa, in Lucania esistesse un isolamento secolare e forme di cultura arcaica che hanno influenzato fortemente i comportamenti della gente». Il regista è perfettamente consapevole del fatto che quella Lucania non esiste più, che l’isolamento di un tempo è scomparso. Tuttavia, ad esso si sono sostituite nuove forme di emarginazione che sono il prodotto dell’arrivo di una civiltà dei consumi che convive con alcune forme di arretratezza sociale e culturale. In tal senso, il Cristo di Rosi non è un film sul passato, ma sul presente. Visto da questa prospettiva esso si colloca perfettamente in una filmografia, quella del regista napoletano, che è incentrata sulla narrazione degli aspetti problematici e dei paradossi del Sud”.
(Mariangela Palmieri, Officina della Storia, 2 Luglio 2020)

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