Nel prendere le mosse dal suo film televisivo In two minds (1967), che fu sceneggiato dallo scrittore David Mercer, Ken Loach rilegge, in Family life (1971), il potere dei legami familiari, analizzandoli in chiave politica e psicopatologica, e nel suo film la potenziale carica schizofrenica originata dai rapporti tra genitori e figli disegna un quadro drammatico e senza fronzoli (anche) della condizione femminile del periodo. Janice è stata abituata subdolamente a reprimere i proprio mondo emotivo, in primo luogo dalla nutrice autoritaria. Non a caso, quando Janice viene portata in un istituto psichiatrico, ecco che il dottor Riddal, uno psicoterapeuta non conformista, cercherà di capire l’origine del disagio psichico che tormenta la giovane e presto si accorgerà che lo stesso è l’esito di un condizionamento familiare repressivo e censorio.
Quando lo psicoterapeuta avrà modo di ascoltare i genitori di Janice, finalmente scoprirà l’ottusa prepotenza della madre della ragazza – pur ambiguamente camuffata da modi apparentemente cortesi, via via destinati a creparsi – e percepirà il grigiore della complicità di un padre che dice di non comprendere come il tema del sesso nella vita di una coppia genitoriale (ovverosia la sua assenza) possa avere a che fare con il disagio della figlia Janice. La quale è una giovane incompresa nei suoi desideri, che è stata condotta a un aborto contro la sua volontà da una madre crudele prima che sessuofoba; una giovane, Janice, non rispettata dai genitori in quelle manifestazioni che accompagnano con naturalezza la crescita e l’affermazione di una donna. Nonostante ciò, viene inizialmente accolta, nelle istituzioni psichiatriche disponibili in quel periodo, incontrando proposte di trattamento terapeutiche nettamente in alternativa rispetto alle pratiche fino a quel momento in auge, a base di farmaci ed elettroshock. Janice viene infatti dapprima curata dal medico-psicoterapeuta Riddal in una struttura non convenzionale, e allo sguardo dei genitori la mancanza di nette contrapposizioni tra ciò che appare loro come giusto e sbagliato, pare un tratto eccessivamente tollerante del sistema curativo, una bizzarria pericolosa solo a tratti tollerata.
Singolarmente indicativa dell’ambiguità nell’atteggiamento dei genitori verso Janice è il loro esibito atteggiamento di interesse per “contribuire” alla cura e al trattamento della figlia. Vediamo la coppia di adulti accompagnare Janice dal medico e poi li vediamo porgere domande, vogliono parlare, vogliono che la loro figlia torni “sana”, cioè perfettamente addomesticata e priva di istinti che non siano irreggimentati nell’annichilente ordine familiare. Quello che viene esibito dai coniugi piccolo-borghesi è un doppio legame che si manifesta in primo luogo verso la figlia – con una comunicazione che, pur animata da una significativa relazione emotiva, presenta evidenti incongruenze tra la comunicazione verbale, ovverosia tra quanto viene detto a voce, con quella non verbale fatta di gesti e atteggiamenti; una condizione molto evidente nella figura materna, mente il padre di Janice è più scopertamente un grigio prototipo dell’individuo acritico. Quindi, il loro atteggiamento così espresso verso Janice appare subdolo e determinato anche nei riguardi dell’ambiente che accoglie loro figlia e la prende in carico: un atteggiamento risoluto e manipolatorio, come propaggine esteriore di una condotta grettamente prepotente già tra le mura domestiche. Quando il medico-psicoterapeuta che comprende Janice e che ha individuato l’origine del disagio viene licenziato da un ospedale in cui la nascente comunità terapeutica si trova a vivere in attrito con le ferree consuetudini per il trattamento e la custodia, la ragazza viene internata in manicomio e sottoposta a una serie di elettroshock subendo quello che all’epoca veniva indicato come “annichilimento”. Il manicomio, riflettendo la mentalità livellante dei genitori di Janice, si rivelerà essere, parafrasando Basaglia e Jervis, “l’istituzione negata”, luogo assolutamente inadatto a comprendere la genesi psicologica della sofferenza psichica della giovane.
Due attori eccellenti, Michael Riddall e Grace Cave, interpretano in Family life rispettivamente il medico-psicoterapeuta di comunità e la madre autoritaria che costringe la figlia Janice ad abortire. Il primo, accogliente e anticonformista, cerca di mettere a suo agio Janice, la ascolta, ma ascolta anche i genitori con la loro devozione a un pensiero fatto di consuetudini e bigottismo, cercando di aprire dei varchi nel suggerire la necessità di un pensiero differente. Lo psicoterapeuta mette in luce allo spettatore del 1971 l’origine del disagio di Janice come la conseguenza di più fattori, soprattutto la rigidità familiare e l’incapacità di un dialogo tra le generazioni, cui risponderà duramente il sistema terapeutico più conformista allineandosi con le richieste autoritarie dei genitori: tagliare i lacci di Janice con le relazioni emancipanti, come potrebbero esserle quelle con uno psicoterapeuta non conformista, ma anche con una sorella che, in visita dai genitori con le figlie bambine, in passato ha saputo ribellarsi a loro e crearsi una propria vita, o con Tim, un fidanzato anticonformista che vorrebbe prendersi cura di Janice ma contro cui interverranno persino le guardie. A proposito del fidanzato Tim, questi ha il volto dell’attore di Manchester Malcolm Tierney e coinvolge Janice in un proposito di individuazione che ha il suo momento più lieve nella pagina cinematografica che invoca un raro momento liberatorio per Janice, quando colora con lo spray blu il giardino del padre, gesto di liberazione dal grigiore delle casette monocordi del quartiere: una pagina sorridente che ha presto il suo contrappasso nella sequenza di pura violenza che vede l’ordine costituito invadere la casa di Tim per portare Janice via da quel riparo in cui la coppia era scappata da tutte le proibizioni, per condurla in manicomio.
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