Disponibile su Youtube Edipo re, un film del 1967 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, liberamente tratto dall’omonima tragedia di Sofocle e con protagonista Franco Citti nel ruolo di Edipo. È stato presentato in concorso alla 28ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Prodotto da Alfredo Bini, con la fotografia di Giuseppe Ruzzolini, il montaggio di Nino Baragli, le scenografie di Luigi Scaccianoce, i costumi di Danilo Donati e le musiche di Pier Paolo Pasolini, Edipo re è interpretato da Silvana Mangano, Franco Citti, Carmelo Bene, Alida Valli, Julian Beck, Luciano Bartoli, Francesco Leonetti, Ahmed Belhachmi, Ninetto Davoli, Ivan Scratuglia. Il film è stato girato tra l’Aprile e il Luglio del 1967, prevalentemente in Marocco, nelle località di Ait-Ben-Haddou, Ouarzazate e Zagora. Alcune scene di interni sono state girate nei teatri di posa della Dino De Laurentiis Cinematografica a Roma, mentre le scene del prologo a Casaletto Lodigiano e a Sant’Angelo Lodigiano, e quelle dell’epilogo in vari luoghi di Bologna, tra cui Piazza Maggiore. Edipo re è stato presentato in anteprima il 3 settembre 1967 alla 28ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha concorso per il Leone d’oro. È stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 7 settembre 1967 dalla Euro International Films.
Trama
Laio e Giocasta si sentono minacciati dalla profezia secondo cui il loro figlio Edipo ucciderà il padre e sposerà la madre. Così ordinano a un servo di uccidere il neonato, ma questi viene raccolto da un pastore e allevato da re di Corinto. Edipo, ormai uomo, apprende il vaticinio e fugge, ma, il destino lo guida inesorabilmente al compimento dell’atroce profezia. Edipo, disperato, si acceca.
Pier Paolo Pasolini su Edipo re
Avevo due obiettivi nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobiografia assolutamente metaforica, quindi mitizzata; il secondo, affrontare tanto il problema della psicoanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il mito sulla psicoanalisi, ho riproiettato la psicoanalisi sul mito. Eppure mi sono tenuto molto libero, ho seguito tutte le mie aspirazioni e i miei impulsi. Non me ne sono negato nemmeno uno. Questa è stata l’operazione fondamentale di Edipo re. Il risentimento del padre nei confronti del figlio è qualcosa che ho avvertito più distintamente della relazione tra madre e figlio, che non è un rapporto storico, ma puramente interiore, privato, fuori della storia, anzi metastorico, quindi ideologicamente improduttivo. Mentre ciò che determina la storia è il rapporto di amore e odio tra padre e figlio. Io ho sentito l’amore per mia madre molto, molto più profondamente, e tutto il mio lavoro ne è stato influenzato”.
Edipo re non è un film interamente antico. Ci sono un prologo e un epilogo moderni. Il prologo è l’infanzia di un bambino, che potrebbe essere uno di noi, e che sogna tutto il mito di Edipo quale lo ha raccontato Sofocle, con degli elementi freudiani, beninteso. Alla fine, il bambino è vecchio e cieco ed è un po’ ciò che Tiresia a suo tempo è stato, ossia una sorta di profeta, di «homo sapiens», di saggio che suona il suo flauto e percorre il mondo contemporaneo. La prima scena è a Bologna nel 1967 e là questo vecchio cieco suona un’aria che ricorda l’epoca borghese, il mondo «liberale» il mondo capitalista insomma. La seconda scena è a Milano vicino ad una fabbrica dove si trovano degli operai e là Edipo suona col suo flauto arie della Rivoluzione russa. Alla fine sempre alla ricerca di un nuovo luogo in cui stabilirsi, fissarsi, ritorna verso i luoghi dove per la prima volta ha visto sua madre, e nel film è accompagnato dal tema musicale della madre.
Edipo re si presenta, nella seconda parte, come un grande sogno del mito che finisce al risveglio, col ritorno alla realtà. La terza parte è il momento della sublimazione, come la chiama Freud. La variante del mito è che Edipo si ritrova allo stesso punto di Tiresia: si è sublimato come fa il poeta, il profeta, l’uomo eccezionale, in qualche modo. Diventando cieco, attraverso l’autopunizione, dunque attraverso una certa forma di purificazione, egli accede al dominio dell’eroismo, o della poesia. Il film è una proiezione in parte autobiografica. Ho girato il prologo in Lombardia, per evocare la mia infanzia in Friuli, dove mio padre è stato ufficiale, e l’epilogo, o piuttosto il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho cominciato a scrivere poesie. Lì mi sono trovato integrato nella società borghese; allora credevo di essere un poeta di questo mondo, come se questo mondo fosse stato assoluto, unico, come se le divisioni di classe non fossero mai esistite. Credevo nell’assolutezza del mondo borghese. Con il disincanto, Edipo fugge dunque il mondo borghese e affonda sempre più nel mondo popolare, dei lavoratori. Egli canta non più per la borghesia ma per la classe degli sfruttati. Da qui questo lungo itinerario verso le fabbriche. Dove l’attende un altro disincanto, probabilmente.
Nel film il parricidio emerge più dell’incesto (certo emotivamente se non quantitativamente), ma credo sia abbastanza naturale, perché storicamente io mi sono posto in un rapporto di rivalità e di odio verso mio padre, e quindi sono più libero nel modo di rappresentare il mio rapporto con lui, mentre il mio amore per mia madre è rimasto qualcosa di latente. Il rancore del padre verso il figlio è qualcosa che ho sentito più distintamente che non il rapporto tra il figlio e la madre, perché il rapporto tra un figlio e sua madre non è un rapporto storico: è un rapporto puramente interiore, privato, al di fuori della storia, in realtà metastorico e perciò ideologicamente improduttivo, mentre invece ciò che fa la storia è il rapporto di odio e amore tra padre e figlio. Quindi, naturalmente, questo mi ha interessato più di quello tra il figlio e la madre: ho sentito l’amore per mia madre molto, molto profondamente, e tutta la mia opera ne è influenzata, ma è un’influenza la cui origine è dentro di me, nel mio intimo e, come ho detto, piuttosto al di fuori della storia. Invece tutto quello che c’è di ideologico, volontario, attivo e pratico nelle mie azioni come scrittore dipende dalla mia lotta con il padre.
Freud trionfa nell’episodio della Sfinge, l’unico punto radicalmente mutato — insieme a quello della sostituzione di Antigone con Angelo — : infatti la Sfinge non propone un indovinello, ma chiede direttamente a Edipo di chiarire da se stesso l’enigma che è in lui, ed Edipo si rifiuta, respingendo la Sfinge nell’abisso da cui è salita — un po’ buffa a dire il vero — e sapendo che respingendola nell’abisso avrebbe potuto impalmare la madre. Un caso dunque audiovisivo di rimozione.
Sfinge: C’è un enigma nella tua vita. Qual è?
Edipo: Non so, non voglio saperlo.
Sfinge: È inutile. L’abisso in cui mi spingi è dentro di te.
Le parole della Sfinge non esistono nel testo di Sofocle. Se ne parla solamente. Questo concerne l’antefatto. Non è precisato come, né in quali termini, Edipo ha incontrato la Sfinge. Ho dunque operato un cambiamento in rapporto alla mitologia popolare greca, non nei confronti di Sofocle, facendo della Sfinge, molto semplicemente, l’inconscio di Edipo: Edipo può fare l’amore con sua madre solo a condizione di respingere la Sfinge nell’abisso, vale a dire nel suo inconscio. Edipo è la persona che non vuole guardare dentro le cose, come tutta la gente innocente, quelli che vivono la loro vita come prede della vita e delle loro stesse emozioni. Questa è la cosa che più mi ha ispirato in Sofocle: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo di sapere. Mentre Edipo era per me un uomo semplice destinato ad agire più che a comprendere (per cui l’evoluzione verso la verità nascosta è tutto il dramma), Giocasta è completamente differente: è un puro mistero. Tuttavia devo dire, a ben pensarci, che il personaggio di Giocasta è più riuscito di Edipo. Con Giocasta ho rappresentato mia madre, proiettata nel mito, e una madre non muta: come una medusa, cambia forse, ma non si evolve.
Edipo (tra sé, come in un sogno):
Tutto è chiaro… Voluto non
imposto, dal destino.
La differenza profonda tra Edipo e gli altri miei film è che è autobiografico, mentre gli altri o non lo erano oppure lo erano inconsciamente, indirettamente. In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita, mitizzata naturalmente, resa epica dalla leggenda di Edipo. Ma, essendo il più autobiografico dei miei film, Edipo è quello che considero con più obbiettività e distacco, poiché se è vero che racconto un’esperienza personale, è anche vero però che è un’esperienza conclusa che non mi interessa praticamente più. Ciò darà al mio film un maggiore «estetismo», ma anche — spero — una prospettiva umoristica che negli altri era meno rilevante. Lo humour è distacco dalla realtà, attitudine contemplativa di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà. L’estetismo e l’umorismo hanno dunque presieduto alla scelta dei momenti tipici della vita di Edipo, quelli che acquistano valore dopo la morte del protagonista, e che si mettono, quasi da sé, in una successione simile a quella della vita (nel tempo), ma smisuratamente più breve — o, meglio, col soccorso di una mente pensante o di un montaggio — più sintetica.
Nella fattispecie ho curato le inquadrature in modo molto più cinematografico del solito (non so se sono riuscite belle o brutte, ma il tentativo era di farle belle, di fare delle «belle inquadrature»); e ho creato delle situazioni di distacco dalla materia (mettiamo gli occhi di Angelo che guardano la Sfinge dissacrandola in una sorta di comicità sorridente appena, ma tale da renderci increduli e impedirci di sentirci coinvolti con le cose della favola. Quando penso ad un film, spero segretamente che sarà bello, ma effettivamente non ho mai avuto la necessità di fare un film che sia soltanto bello, ho bisogno di altri moventi: nel caso preciso l’eccitante era lo sviluppo marxista-freudiano del tema di Edipo.
Considero Edipo come il più cinematografico dei miei film. Per tutti gli altri, e soprattutto per Accattone, Bernardo Bertolucci ha ragione quando dice che non si può parlare di cinema (non avevo una formazione da cinefilo, non amavo certi piani che pure sono tipici del cinema, una certa forma di narrazione comunque valida per tutto il cinema; manifestavo una forma di rifiuto, cosciente o inconscio, non so, a fare del cinema; preferivo dipingere, o non so bene cosa). Qui per la prima volta ho accettato le regole, certe regole intrinseche a questa forma d’espressione. Per esempio, in tutti i film c’è un personaggio che esce di campo, lo lascia vuoto, e un altro che vi entra: io non l’avevo mai fatto. Pensavo si trattasse di una regola banale. Forse perché oggi amo il cinema più di un tempo, in Edipo ho utilizzato anche questa figura.
L’altra ragione per cui il film è girato con «estetismo e umorismo» è che l’oggetto della ricerca di Freud non mi interessa più tanto, proprio come non mi interessa più tanto l’oggetto della ricerca di Marx. Non sono più del tutto seriamente inviluppato nel magma che fa di Edipo un oggetto di analisi freudiana e marxista. È vero, alla fine del film Freud sembrerebbe battere Marx. Ed Edipo va a perdersi nel covo verde di pioppi e acque dove è stato allattato.
Edipo: O luce, che non vedo più, che prima eri stata in qualche modo mia, ora mi illumini per l’ultima volta. Sono tornato.
La vita finisce dove comincia.
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