Disponibile su Prime Video La casa dalle finestre che ridono, un film del 1976 diretto da Pupi Avati. La sceneggiatura fu scritta dal regista con il fratello Antonio (anche produttore), Gianni Cavina e Maurizio Costanzo. I personaggi principali sono interpretati da Lino Capolicchio, Francesca Marciano e lo stesso Cavina, che inoltre doppia il personaggio interpretato da Tonino Corazzari. È la prima mystery story diretta da Avati, che segnala il passaggio dalla commedia all’horror: seguiranno Zeder nel 1983, L’amico d’infanzia nel 1994, L’arcano incantatore nel 1996 e Il nascondiglio nel 2007. Nel 1979 ha vinto il premio della Critica al Festival du Film Fantastique di Parigi e dopo alcuni anni divenne un cult. Con Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Gianni Cavina, Vanna Busoni. Pupi Avati ha tratto l’idea per la realizzazione del film da un episodio della sua infanzia. Nel comune dove risiedeva fu infatti aperta la tomba di un prete, ma i resti rinvenuti appartenevano misteriosamente a una donna. La zia del futuro regista, per farlo star buono quando era bambino, lo minacciava del possibile arrivo del “prete donna”, spauracchio da lei inventato sulla scorta del fatto sopracitato. Con Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Gianni Cavina, Vanna Busoni, Giulio Pizzirani, Bob Tonelli, Pietro Brambilla, Ferdinando Orlandi.
Trama
Incaricato di restaurare un affresco dipinto da un pittore suicida in un paese del ferrarese, Stefano assiste a eventi e morti inquietanti, indagando sulle quali scopre (e ci svela) tutto il torbido e il sordido che si agita nelle pieghe profonde della provincia.
“È una storia di matti, fino a ieri ho raccontato matti innocui, fantastici, che odoravano di buono. Qui ho raccontato invece una delle seicento storie della terra nostra, inventata lì per lì, col solo intento di spaventare. E spaventare, allora, ti parlo di quando ero bambino, era modo di educare”.
(Pupi Avati)
“Il quinto film di Pupi Avati inquieta fin dalle immagini di apertura, mentre scorrono i titoli di testa sull’audio delle farneticazioni del pittore Buono Legnani. L’atmosfera gioca un ruolo primario ed è la vera forza del film: Avati contrappone la soleggiata campagna, i canali della laguna di Comacchio, la vita semplice di paese a una storia maledetta di morbosità, omicidi e incesti. I silenzi delle brave persone di campagna, i segreti condivisi dalla comunità e taciuti agli estranei, i casolari isolati dove si muovono ombre minacciose, le carrarecce sperdute dove se gridi nessuno ti sente: tutto, anche le scene che si svolgono in pieno sole, alimentano un’inquietudine che via via si stringe attorno al protagonista e allo spettatore. Il finale de La casa dalle finestre che ridono mette a referto un colpo di scena davvero ben congegnato: più è intricata la vicenda, più è semplice la soluzione. Al termine della visione restano impressi diversi dettagli del film, ma forse più di tutto rimangono i personaggi e le loro facce. Lino Capolicchio (Stefano) è un protagonista spaesato ma non sprovveduto, un uomo comune ma caparbio e indomito; Gianni Cavina (Coppola) buca lo schermo nel ruolo del tassista ubriacone, uomo di cuore e di bottiglia; altri due volti iconici del film, seppur con ruoli minori, sono Eugene Walter (don Orsi) e Bob Tonelli (il sindaco Solmi) che, grazie anche alla fisicità poco mascolina del primo e affetta da nanismo del secondo, caratterizzano alla grande i loro personaggi. Con questo film Pupi Avati traccia le linee guida per i suoi horror successivi: il protagonista diventa una sorta di detective che indaga una misteriosa vicenda del passato che si scopre proseguire anche nel presente. Zeder (1983), L’arcano incantatore (1996), Il nascondiglio (2007) e Il signor Diavolo (2019) seguono questo schema con buoni risultati, pur senza raggiungere le vette de La casa dalle finestre che ridono.”
(Martino Savonari, 7 Aprile 2021)
“Piccolo e angosciante horror made in Italy, dagli spiccati risvolti gotici. Il regista Pupi Avati (anche sceneggiatore con il fratello Antonio, Gianni Cavina e Maurizio Costanzo) riesce a tratteggiare le derive torbide e malate della bassa Padana (da incubo i volti maligni degli sfuggenti abitanti) attraverso un uso mirabile dell’ambientazione, il cui apice coincide con lo svelamento della casa a cui fa riferimento il titolo, grottesco abominio dalle finestre ghignanti. Uno stile sobrio e volutamente antispettacolare (con deformazioni visive funzionali: notevoli i ralenti che enfatizzano i momenti topici della narrazione), scandito da suggestioni, dettagli (memorabile la voce del pittore pazzo: «I colori, i miei colori, mi escono dalle vene») e atmosfere silenti e solo in apparenza rassicuranti: la paciosa quotidianità rurale si trasforma inaspettatamente in pura follia, l’apparente normalità diventa ferocia, in un climax tensivo che accompagna verso l’agghiacciante (e imprevedibile) conclusione. Suspense da manuale e cast ben diretto (nonostante la monoespressività di Lino Capolicchio e Francesca Marciano, che interpreta la maestrina Francesca), in cui spicca il bravo Gianni Cavina (Coppola). Musiche di Amedeo Tommasi, fotografia di Pasquale Rachini”.
(LongTake)
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