Disponibile su RaiPlay Il bandito, un film del 1946 diretto da Alberto Lattuada. Il film fu presentato in concorso alla 1ª edizione del Festival di Cannes. Prodotto da Luigi Rovere e Dino de Laurentiis, scritto e sceneggiato da Oreste Biancoli, Mino Caudana, Ettore Maria Margadonna, Alberto Lattuada, Tullio Pinelli e Piero Tellini, con la fotografia di Aldo Tonti, il montaggio di Mario Bonotti, le scenografie di Luigi Borzone e le musiche di Felice Lattuada, dirette da Ugo Giacomozzi, Il bandito è interpretato da Amedeo Nazzari, Anna Magnani, Carla Del Poggio, Carlo Campanini, Eliana Banducci, Folco Lulli. Il film vinse un Nastro d’Argento al migliore attore protagonista (Amedeo Nazzari).
Trama
Reduce dalla prigionia in Germania Ernesto si trova solo: la casa distrutta, la mamma morta, la sorella scomparsa. Ritrova inaspettatamente questa ultima in una casa equivoca, dove nasce una furibonda lotta con l’ingaggiatore della ragazza. Nella colluttazione la sorella rimane uccisa e il figuro viene spinto da Ernesto nella tromba delle scale. Ferito e inseguito dalla polizia, il giovane ripara in casa di una mondana che è a capo di una banda di rapinatori. Diventa amante della donna e capo della banda, ma il ricavato delle imprese egli lo elargisce in atti benefici che i compagni disapprovano. Un giorno, mentre con i complici effettua un colpo assalendo una macchina, egli viene denunciato alla polizia dalla stessa mondana che si vuol vendicare di una offesa subita, ma egli rinuncia a mettersi in salvo per riaccompagnare a casa la bimba di un suo ex compagno che si trovava nella macchina assalita. Non rispondendo all’alt intimatogli dagli agenti, questi sparano ed Ernesto cade ferito a morte.
“Girando per le strade ascoltavo i discorsi e pensavo allo “choc” dei reduci che trovavano l’Italia ribaltata dopo la prigionia e trovavano rovesciati tutti i valori precedenti, perciò Il bandito nacque dai dialoghi ascoltati all’angolo della strada. Questa specie di desiderio di farsi giustizia da sé, questa insofferenza e lo scivolare fuori dalla legge: l’uomo che non riesce più a inserirsi. Il soggetto de Il bandito l’ho portato da Ponti, ma lui non l’ha voluto fare. Allora sono andato da De Laurentiis che mi disse che l’avrebbe fatto lui. Mi disse: “Sai cosa faccio? Do un assegno a vuoto all’Anna Magnani, e poi vado da Gualino e gli spiego che cos’è questo film”. Così il venerdì sera diede un assegno alla Magnani. La mattina del giovedì dopo aveva concluso con Gualino e Rovere. Rovere diede un po’ di ossigeno a Dino perché aveva capito che Dino era un esplosivo. A Torino lo appoggiò moltissimo. Ci diede dei mobili, delle cose della sua falegnameria, ci procurò dei mezzi, delle conoscenze… poi noi, attraverso il Ministero della Guerra che aveva una sezione cinematografica che sopravviveva, ottenemmo un’Ascania muta da 120 metri. Non si trovavano manco più le macchine da presa. Le avevano rubate tutte”.
(Alberto Lattuada, Filmcritica n. 158, Giugno 1965).
“Le sequenze iniziali del film sono le più belle e sentite: stazioni affollate e treni stracarichi, gente alla ricerca di una meta. Non una luce brilla in questo racconto amaro che poi scivola nel romanzesco per la caparbia volontà che mostra il regista di ‘agganciare’ il pubblico, di comunicare con gli strati più larghi degli spettatori, di dire a quanta più gente possibile, con un linguaggio comprensibile, cose vere e scottanti.”
(Carlo Lizzani, “Il Cinema italiano”, Editori Riuniti, 1979)
“Terzo film di Alberto Lattuada dopo Giacomo l’idealista (1942) e La freccia nel fianco (1943-44), Il bandito rappresenta la prima delle due prove neorealiste – la seconda sarà Senza pietà (1948) –, che il regista propone nell’immediato dopoguerra. Il bandito è un film dall’architettura narrativa complessa e articolata, con una prima parte di osservazione documentaria dove viene messa in risalto la condizione vissuta dal reduce al suo rientro in patria, una seconda parte debitrice agli schemi del romanzo poliziesco che si costruisce su un’affastellarsi di colpi di scena e di rocambolesche avventure e finale melodrammatico di forte carica emotiva che il regista dichiara di «aver appositamente scelto». Il bandito raccoglie così lo spirito dei tempi – basti citare Roma città aperta, Sciuscià e Paisà –, ripropone i modelli americani sui quali Lattuada ha formato la propria cultura cinematografica negli anni Trenta e Quaranta e sfrutta la vena didascalico-moralistica già presente nelle due precedenti prove registiche, risultando una sorta di film summa per il regista. Il bandito ha dunque una natura composita e appare strutturato in tre parti diverse tra loro le quali hanno però «percorsi ed esiti analoghi: dal desiderio, attraverso l’agnizione, fino alla morte. Documentario, noir e melodramma, le sezioni del film “ben distinte” presentano quindi un andamento molto simile, provocando quasi un effetto ecolalico. Ciò che in realtà muta, producendo un raffinato ricamo di varianti, è appunto la ragione dell’occhio: su un tessuto narrativo che, seppur presentando personaggi e ambienti differenti, viene a definirsi quasi come un trittico, ciò che muta è la modalità di definizione dello sguardo sulle cose. […] Ma è anche vero che le tre parti si caratterizzano sostanzialmente per tre registri visivi differenti: allo sguardo oggettivo, segnato dalla predominanza di carrelli, subentra nella seconda parte una visione soggettiva, giocata spesso sul campo-controcampo e sul frequente uso del dettaglio, chiude la terza parte, che coincide con l’epilogo, dove troviamo il sopravanzare delle ampie panoramiche che arrivano a caricare emotivamente il tragico finale”.
(F. Villa, Botteghe di scrittura per il cinema italiano. Intorno a Il bandito di Alberto Lattuada, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2002)
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