Disponibile su RaiPlay Drive My Car, un film del 2021 diretto da Ryūsuke Hamaguchi, adattamento cinematografico dell’omonimo racconto di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne (2014). Considerato dalla National Society of Film Critics e da diversi critici come miglior film del 2021, Drive My Car è stato presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, dove ha vinto il Prix du scénario. Il lungometraggio ha poi vinto il premio Oscar come miglior film internazionale dopo aver ricevuto quattro candidature: miglior film (primo giapponese a raggiungere la candidatura), miglior regista, migliore sceneggiatura non originale e miglior film internazionale, oltre ad aver vinto il Golden Globe per miglior film in lingua straniera. Con Hidetoshi Nishijima, Tôko Miura, Masaki Okada, Reika Kirishima.
Trama
Da un racconto di Haruki Murakami. Il protagonista, attore e regista teatrale, sta cercando di ricominciare una nuova vita. Accetta di allestire un proprio adattamento di Zio Vanja di Anton Čechov all’interno di un festival che si svolge a Hiroshima. Qui fa la conoscenza di Misaki, una ragazza che il festival gli assegna come chauffeur. Anche Misaki ha dei conti in sospeso con il proprio passato.
«Ci sono tre ragioni per cui ho voluto realizzare un film basato sul racconto Drive My Car di Haruki Murakami. La prima è che presenta Kafuku e Misaki descrivendo le interazioni tra i due intriganti personaggi. E queste interazioni avvengono all’interno di un’auto. Tali rappresentazioni hanno stimolati i miei ricordi legati alle conversazioni personali che nascono solo all’interno di quello spazio chiuso e in movimento. Sì, perché è uno spazio in movimento che in realtà non è da nessuna parte e ci sono momenti in cui quel luogo ci aiuta a scoprire aspetti di noi stessi che non abbiamo mai mostrato a nessuno o pensieri che prima non potevamo esprimere a parole.
La seconda è che il racconto ha come tema quello della recitazione. Recitare significa possedere identità multiple ed è una forma di follia socialmente accettata. Farlo come lavoro è ovviamente estenuante e a volte provoca persino crolli. Ma conosco persone che non hanno altra scelta che farlo. E queste persone che recitano per lavoro sono di fatto completate dalla follia della recitazione, che permette loro di continuare a vivere. La recitazione come mezzo per sopravvivere è qualcosa che mi interessa da molto tempo.
L’ultima è dovuta all’ambiguo personaggio di nome Takatsuki e al modo in cui è descritta la sua “voce”. Kafuku è abbastanza certo che Takatsuki sia andato a letto con sua moglie prima che morisse e ritiene che non sia un attore particolarmente brillante. Ma un giorno Takatsuki scopre il punto debole di Kafuku: “Se vogliamo vedere veramente com’è fatta un’altra persona, dobbiamo iniziare guardando dentro di noi”, dice, e il motivo per cui questo commento abbastanza banale devasta Kafuku è dato dal percepire intuitivamente che è una “verità” a cui non sarebbe mai arrivato da solo. “Le sue parole erano chiare e cariche di convinzione. Non recitava, questo è certo”».
(Ryūsuke Hamaguchi)
“Un enigma – interiorità dei personaggi, il loro segreto dolore, le loro nevrosi e il cumulo imprevedibile dei desideri – che si presenta e si scioglie via via che il racconto si consolida e che poi il testo teatrale si diluisce nello spazio dell’ immagine: il regista e attore teatrale Yusuke insiste ossessivamente sulla parola, rileggendo insieme agli altri attori lo Zio Vanja di Cechov, perché la parola entri in circolo, si stagli nel corpo, lo possegga prima di suscitare l’ interpretazione, la recita. È il letterario nel cinema: non l’ adattamento ma la coesione, un possibile terreno di coesistenza e di consistenza di due linguaggi differenti che si cagliano nell’immaginazione. Ma in Drive My Car si assiste proprio alla carne nuda e all’ossatura di questi due piani luminosi, letteratura e cinema che s’ intersecano, si sovrappongono, si confondono non prima di aver svelato la natura teorica e immaginifica di questa dinamica. Perciò spesso si crea un contrappunto tra ciò che si vede, ad esempio due corpi stesi nella penombra dopo l’ amplesso, e ciò che si sente, cioè la narrazione da parte di Oto, di un amore adolescenziale, le immagini veicolate da questo racconto che restano fuoricampo eppure in un certo senso si sovrappongono, come in sovrimpressione, alle forme del quadro. O le vicende dei protagonisti ambientate in una Hiroshima diradata, sonnambolica – anche le vicende della messa in scena dell’ opera di Cechov – che si sostituiscono a tratti al dramma di Zio Vanja, s’impossessano di quei personaggi richiamati dalle commessure del tempo.”
(Luigi Abiusi, Il Manifesto, 29 Dicembre 2021)
Lascia un commento