Il sol dell’avvenire è un invito sensibile a guardare avanti, a superare il vuoto, il disagio, l’assenza di punti fermi e di valori stabili. Nel confrontarsi con la condizione attuale e con il tempo che scorre, Nanni Moretti sceglie di tornare per una volta protagonista a tutto tondo di un suo nuovo film, e con il suo racconto generoso ci accompagna a scoprire sulla pelle del suo popolare personaggio cosa non può o non vuole essere più un film di e con Nanni Moretti, e cosa invece può ancora esserlo – necessariamente, politicamente, moralmente – oggi, in tempi così difficili, caratterizzati da un orizzonte di tanti film italiani allo sbaraglio e con un pubblico sempre più lontano dalle sale.
Il racconto evidentemente non può o non vuole essere oggi più esclusivamente uno sguardo generazionale (Ecce bombo), un approdo surreale e provocatorio sulle acque fragili della memoria politica (Palombella rossa), un momento autoriflessivo dolente sulla perdita e il distacco (La stanza del figlio, Mia madre), ma adesso il cinema di e con Moretti, che ha attraversato varie fasi confrontandosi con il silenzio e l’assenza di figure deputate a offrire direzioni culturali e politiche, preferisce darsi come una commedia-saggio-contenitore che trova nel circo, nella sua vocazione allegorica e nostalgicamente autosufficiente, l’equivalente di un bandolo nella matassa degli interrogativi le cui risposte stanno più a cuore all’autore.
Nanni Moretti, in uno dei suoi film più disarmanti, dove sentiamo spesso la voce del personaggio rimpiangere la madre non più con lui, prova a fare i conti con il suo cinema, per portare in scena aspetti che rappresentano una zona di crisi ancora più ampia rispetto al passato, qualcosa che contempla sia la condizione del personaggio (con le sue rigidità che mettono alla prova moglie e figlia, con le sue ossessioni che ottengono sorrisi o imbarazzo), sia quella dell’artista e del professionista (il cineasta in un vortice di difficoltà contingenti e storiche), sia più in generale la crisi dell’identità, qualcosa che riguarda tanto il cinema e il suo potenziale (dis)farsi nell’Italia contemporanea, quanto il rapporto del cittadino con il suo tempo.
Moretti ha giustamente il diritto di incontrare ancora una volta quel personaggio che la fase cine-diaristica dei suoi film ci aveva fatto conoscere (Caro diario, Aprile), e che sembrava aver dato l’opportunità di deporre la maschera degli alter-ego – da Michele Apicella a Don Giulio – e lo ripropone in un film-carillon, dove le canzoni non soltanto rievocano l’importanza surreale e significativa che avevano in alcuni suoi film, ma sono sostanzialmente atti di ribellione sensoriale, perché qui più che nel passato servono deliberatamente come iniezioni di senso, ovverosia come inviti a superare quelli che si presentano come vicoli ciechi, drastici momenti bui quando non addirittura ipotesi sulla fine della Storia e del senso.
Le canzoni ne Il sol dell’avvenire inducono fuori campo la disperazione e sono come evocazioni, momenti di raccoglimento e dolcezza, elementi di artisticità che il film può “curativamente” permettersi, verso quel metaforico sol dell’avvenire che è anche inevitabilmente un “sòl”, una nota musicale, qualcosa che Moretti vuole far risuonare nell’emotività di uno spettatore che guardando il film ritrova l’impacciata inflessione del vecchio polemista ma anche la disponibilità all’ascolto del nuovo Moretti – un uomo naturalmente invecchiato ma con diverse frecce al suo arco, che con il suo cinema e con il suo mondo di relazioni, affronta in modo creativo la condizione della crisi.
Un personaggio che la stessa figlia, la quale si fidanza con un uomo molto più anziano ottenendo dapprima l’incredulità del genitore e più avanti la sua più serena accettazione, scopre essere dipendente da antidepressivi; e vediamo così Giovanni fare i conti con i suoi pensieri e con un presente che non fa sconti a nessuno, ma di cui cogliamo l’accettazione non passiva, ma più riflessiva rispetto a quanto avrebbe potuto fare Michele Apicella. A liberarsi dal controllo del personaggio di Giovanni è soprattutto la realtà degli atteggiamenti altrui, splendidamente riassunti nelle ribellioni al copione dell’attrice (Barbara Bobulova) che interpreta la compagna del comunista (Silvio Orlando), una figura pronta a uscire dagli schemi, a non obbedire a metodi che la ingabbierebbero. Quegli stessi schemi che il regista Giovanni utilizza d’abitudine, ma che sono per lui una scelta di rigore con cui cerca disperatamente di convivere, una visione della realtà che lui vorrebbe portatrice di riflessione per uno spettatore che, oggi come ieri, Moretti non vuole apatico come lo erano anche i giovani nei film degli anni Settanta del cineasta.
Moretti assolve il ruolo di un regista ne Il sol dell’avvenire, e come potrebbe essere diversamente per un film della maturità? “Parlo mai di astrofisica io?”, diceva Michele Apicella in Sogni d’oro riferendosi alla moda secondo cui tutti parlano di cinema. Nanni Moretti non parla nemmeno oggi di astrofisica, di biologia, ma invece ha il diritto di parlare di cinema, l’argomento che conosce meglio e che difende in un percorso di “cura”, di attenzioni, che lo vedono impegnato a tutto campo da tantissimi anni, nel molteplice ruolo di esercente, autore, attore. E lo fa con un film nuovo che lo vede nei panni che gli sono più congeniali, quelli di un regista impegnato nella produzione di un film, mentre la moglie Paola, a lui talmente vicina da essere anche lei occupata nel settore cinematografico, sta per esplodere, patisce la sua relazione con il marito. Le loro visioni confliggono e la vicenda si intreccia con quella che Giovanni sta girando, la vicenda della reazione di una sezione locale del partito comunista alla Rivoluzione ungherese del 1956, quando l’intervento armato sovietico portò il partito comunista italiano in una posizione a dir poco disagevole.
Il lavoro di un artista esprime in profondità quella dimensione ideale e culturale su cui poggia tutta la sua esistenza, e nel film dentro il film, nella crisi politica che coinvolge il partito e chi ha creduto in esso, è contenuto il cuore della tensione morettiana, quella di un individuo che ha bisogno di una politica che dia fiducia e incoraggi a scommettere nel futuro, anche per un individuo abituato ai suoi vezzi, alle sue ossessioni, alle sue aspirazioni, alle abitudini di cui è un generoso e disarmante puzzle vivente Giovanni-Nanni ne Il sol dell’avvenire. Un personaggio che piace moltissimo ai suoi ammiratori oppure non piace ai detrattori quasi esattamente per gli stessi motivi per i quali piace ai primi; un uomo di cinema che divide per la sua non imparzialità, che qui ritrova, seppure non più giovane, tratti di quei toni scostanti che abbiamo conosciuto nel suo glorioso passato, in grado di infondere coraggio alla sua polemica, di permettere la lunga tirata contro la violenza estetica a favore di una violenza meditata nella sequenza che, dopo l’intenso richiamo a Kieślowski, chiama in causa “alleati” come Renzo Piano e Martin Scorsese (che però ha la segreteria telefonica accesa) in un’ammirata citazione al cinema di Woody Allen.
Non è la prima volta che Moretti chiama a rapporto il cinema che ama (o da cui rifugge) per portare avanti la sua riflessione, mentre la Storia riformulata, “fatta con i se”, è qualcosa che l’universo morettiano si permette di raffigurare non soltanto nel riferimento a Tarantino (che era già tra i numi de Il Caimano), ma volteggiando nella dimensione allegorica, dando corpo ad aspirazioni individuali e collettive, quelle che avrebbero potuto liberare il pensiero politico italiano, di un ben preciso periodo storico, dalla sudditanza all’Unione Sovietica, e che ne Il sol dell’avvenire diventa l’ipotesi trasognata per il futuro degli spettatori che possono così re-immaginare l’utopia.
Il nuovo impegno di Nanni Moretti prende in definitiva la forma di un deliberato ed elegante film-risarcimento, delicatamente autoreferenziale e fragile, che un regista-attore di sessantanove anni realizza con amore per il suo pubblico, attraverso un impegno artistico che si mette in gioco e si mostra vivo, autentico, giunto al momento dei grandi incontri e delle grandi discussioni, delle fondamentali domande circa la tenuta o meno delle storiche questioni cinematografiche che hanno animato la sua vis autoriale. Moretti dialoga con il suo cinema del passato, con i personaggi “eccebombiani” che al termine della proiezione de La dolce vita di Federico Fellini sembrano uscire da un suo film degli anni Settanta a cui il Moretti di oggi si rivolge chiedendo un atteggiamento nuovo, non imbavagliato dagli schemi comportamentali di quegli anni.
Con il suo film Moretti trova un modo nuovo per interrogarsi, per domandarsi cosa rimanga della propria identità d’autore attraverso un film, e se sia possibile condensare in un nuovo lungometraggio il Moretti di ieri con quello di oggi. Ne origina un’opera summa che preferisce intonare una canzone invece di accettare la fine di ogni cosa. Giovanni si mette il cappio e se lo toglie, guardando avanti nonostante tutto. Egli non è da solo infatti. Con lui gli amici e gli interpreti dei suoi film che vediamo attraversare sorridenti la parata conclusiva sulle note euforiche e bellissime di Franco Piersanti. Perché quel sogno che è il cinema (e la politica) può essere davvero tale se condiviso. Tutti insieme in piazza, in un corteo, o in una sala cinematografica. La polemica contro Netflix, in fondo non aggressiva, è l’ennesimo tassello di questo film puzzle confidenziale sull’identità, in cui persino il destino di un film, elemento non di secondo piano, si confronta con la crescente disabitudine degli spettatori ad accoglierlo in sala, a rifletterci sopra grazie a percorsi critici o di approfondimento di cui Moretti lamenta l’assenza a cominciare dalla nostra televisione. Il confronto con l’esempio francese è d’obbligo, e questo argomento, come molti altri temi morettiani, preparano Il sol dell’avvenire al prossimo Festival di Cannes, dove il lungometraggio sarà in concorso assieme ai nuovi lavori di Marco Bellocchio e di Alice Rohrwacher.
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