L’esordio nelle sale cinematografiche di Ken Loach risale al 1967 ed è figlio diretto dell’esperienza televisiva e documentaristica del regista: Poor Cow (id.) è il lungometraggio che porta nelle sale cinematografiche la testimonianza di Nell Dunn, autrice di uno dei più coraggiosi racconti sull’Inghilterra degli anni Sessanta. Dunn scrive con Loach la sceneggiatura di un film che rimane un film importante ma sostanzialmente travisato, la cui sorprendente attualità è oggi ancora in primo piano, e in netto distacco rispetto alla visione tranquillizzante sui “favolosi Sixties”. Sorprende infatti leggere ancora oggi recensioni, scritte anche a distanza di decenni dall’uscita del lungometraggio, che si soffermano quasi esclusivamente sull’aspetto acerbo del cinema di Loach espresso dal suo esordio per le sale, sul sentimentalismo che toglierebbe rigore a un film in cui, invece, Loach si dedica a uno sguardo attualissimo e in grado di riprodurre l’essenza di una condizione.
Una visione a tutto campo che vede la quasi ventenne Joy, bella ragazza della working class del 1967, che vive e resiste in un quartiere popolare di Londra, se ne va in giro con i capelli biondi ossigenati e le ciglia finte, ed è disponibile ad abbandonarsi al flusso degli eventi. Per Joy, vivere in modo eccitante, prendendosi tanti uomini, è sicuramente più importante di vivere nella sicurezza. La sua esistenza è caratterizzata dalla spontaneità nonché da un sentito bisogno di libertà istintuale.
Loach sostiene il racconto di Joy caratterizzandolo con quella trasparenza d’autore che si sposa con i toni disarmanti del personaggio, una ragazza e giovane madre che cerca come può di sbarcare il lunario nei sobborghi di Londra – nonché una giovane che con il suo naturale splendore non può non rallegrare chi la frequenta.
Sono ambienti, quelli che Joy vive, in grado di mostrarsi come culla di diseredati, stenti, assenza di equa giustizia sociale: un mondo sociale che i toni documentaristici inquadrano in quello che è anche il primo film a colori di Loach, il quale con il tempo ha sostenuto che la scelta del colore possa aver contribuito a restituire toni addolciti rispetto alla visione che intendeva più radicalmente severa che intendeva restituire. Ma il colore diventa un banco di prova per i successivi lungometraggi del cineasta, qui chiamato a riprodurre le tinte degli anni Sessanta con gli esiti di un racconto alleggerito dalla colonna sonora, le canzoni di Donovan che accompagnano il vissuto del personaggio la cui manifestazione è “còlta in diretta”, secondo quella che rimane una forte suggestione ereditata dall’esperienza televisiva.
La vita in diretta fa capolino in pagine di realismo e note di sentimentalismo che, osservate a cinquantacinque anni dall’uscita nelle sale di Poor Cow, ripropongono il ritratto di una vita desiderante, anticonformista nonostante Joy non appaia la paladina di una lotta sociale ma, schiettamente, una giovane costretta a fare i conti con il suo ambiente. Joy ha appena diciotto anni quando fugge di casa per stare con Tom, e quando questi finisce in carcere per una tentata rapita, Joy, che si era adattata a vivere con un individuo manesco e autoritario, si ritrova a crescere da sola il bambino avuto con l’uomo.
Accolta da zia Emm, una vecchia prostituta, Joy ne ascolta i consigli, e nei brevi dialoghi con la donna possiamo assaporare momenti di quell’ironia e di quel tono diretto con la vita degli ultimi che Loach sa esaltare vivificandone il sapore umano anche attraverso la malizia dei personaggi femminili.
Come sarà sovente in futuro, è questione di scrittura, con personaggi ritagliati dalla realtà ma attraversati soprattutto dalla percezione di un vissuto concreto; in questo caso abbiamo Joy e zia Emm, descritte con viva naturalezza, in contrapposizione con i tratti più stereotipati che caratterizzano il mostrarsi degli uomini.
Con la zia, Joy condivide quel bisogno di libertà che sembra fare a pugni con la necessità di sostenere il figlio: una tensione che trova un certo sollievo quando la ragazza va a vivere con Dave, un compagno di Tom che a differenza di questi non è affatto manesco, anzi, pur essendo lui stesso un ladro, sa essere un amante tenero, apprezza la natura, esprime qualche valore non gretto e sa come trattare suo figlio.
Per Joy è molto facile entrare in sintonia con Dave, e insieme vivono momenti di passione, assaporando giorno per giorno la loro storia. Ma Dave, dopo Tom, viene condannato anch’egli al carcere, si prende dodici anni per una rapina, e per la ragazza inizia un’altra sfida, quella di restare fedele all’uomo che ama in assenza della sua quotidiana presenza al suo fianco. Gli scrive ogni giorno e si arrangia trovando lavoro come barista e poi come modella fotografica. Ma con la sua giovane bellezza, la ragazza è sotto gli occhi di molti maschi, ad alcuni dei quali ella si concede, forte della convinzione che nulla è regalato a una giovane donna con un figlio, e che la vita è breve. Un senso intenso dell’esistenza che non fa sconti a nessuno e attraversa come un’onda il personaggio e il film che si apre con l’affermazione di una natura – la nascita in tempo reale del figlio – pronta a manifestarsi attraverso una richiesta di accudimento a cui Joy non si sottrae nonostante quell’attitudine alla libertà dei comportamenti che è sin troppo facile valutare come incoerenza. In realtà il film accompagna una giovane nei suoi sbalzi di umore, accoglie la vita nelle sue manifestazioni istintive e si autorizza alla libertà di sguardo esattamente come viene al mondo il cinema di Loach, liberandosi dai dubbi e schivando gli orpelli o gli schemi fissi.
Jonny, il nascituro di Joy, viene portato allo sguardo dello spettatore e a quello della giovane madre attraverso il parto con cui prende origine anche il racconto, e Joy ci viene offerta nella sua posizione di “madre natura” di un film straordinariamente diretto per la sua capacità di dare per acquisite alcune delle istanze a cui il cinema di Loach è già pervenuto rispetto allo sviluppo cinematografico e artistico che verrà. Un messaggio forte e chiaro, quello della nascita e della responsabilità di una giovane madre, i cui diritti sembrano presto calpestati dall’ambiente che attorno ai sobborghi presenta abitazioni borghesi allineate ma anche ruderi pericolanti dove un giorno il piccolo Johnny riuscirà a far perdere le tracce di sé rischiando l’incolumità.
I rischi che un giorno Loach inquadrerà fotografando la condizione lavorativa dei suoi diseredati, sono in Poor Cow già quelli di una donna a cui è chiesto di vivere nella menzogna, come una pre-condizione per affrontare l’ambiente in cui si è ladri o “piegati”, cioè corrotti – secondo la definizione che esce anche dalle parole dell’autoritario Tom a cui non è peraltro difficile credere.
Joy, mentre sente di voler vivere la sua vita con entusiasmo, concedendosi il lusso di qualche piccolo piacere, si ritrova sovente a doversi adattare, e trascorre la sua esistenza sognando il ritorno dei bei momenti vissuti con Dave, al quale continuerà a scrivere lettere per rassicurarlo (e rassicurare se stessa) circa la sua intenzione di aspettarlo durante i dodici anni della reclusione. Nel frattempo Joy porta a casa individui privi di alcuni fascino che le fanno regali ai quali lei non sa sottrarsi, ma che anzi apprezza, così come non si nasconde agli sguardi dei fotografi eccitati che ne fanno oggetto dei loro scatti mentre si sollazzano senza voler dare una vera chance professionale alla ragazza. Joy è la natura in gabbia, circondata dal degrado morale che le consuetudini sociali e le norme borghesi suggellano alimentando un solco tra le classi sociali.
Più volte nel racconto cinematografico la sua figura di giovane ragazza desiderante restituisce a Joy aspetti di radiosità: la donna sembra un fiore in un universo di meschini, con la miseria quale condizione in cui sono ricacciate le persone deprivate di sostegno e assistenza. L’umore instabile e la sensibilità al richiamo del maschio sono aspetti che suggeriscono l’istintiva adesione alla vita di un temperamento nonostante tutto vulcanico, che si innamora di due rapinatori e non si nega a tanti altri uomini, consapevole di dover rendere un po’ eccitante la vita e incline alla gioiosità, perché tutto intorno la vorrebbe una pecora o una figura condannata al silenzio tra le quattro pareti. Le sue insicurezze le impediscono di restare a lungo da sola, e ciononostante, nella genuina attitudine di Joy di riuscire ad andare incontro agli eventi Loach trova materiale interessante e vitale per il suo cinema; il cineasta adotta aspetti di commedia che sono sottilmente in grado di coinvolgere lo spettatore nelle disavventure di Joy e coniugarsi con i toni della speranza che la ragazza purtuttavia sperimenta. Joy infatti evita di crogiolarsi nella tristezza, sceglie di vivere senza vergogna una vita libera, e quando Tom si ripresenterà al ritorno dalla prigione, non riuscirà a sostenere il suo proposito di separarsi definitivamente da lui e mandarlo via, accoglierà l’uomo per finire a riconoscere che la vita con Dave era stata meravigliosa e potrà forse tornare di nuovo se tutto volgerà per il meglio.
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