Disponibile su Yotube Fellini Satyricon, all’estero semplicemente noto come Satyricon, un film del 1969, co-scritto e diretto da Federico Fellini, liberamente tratto dall’omonima opera dello scrittore latino Petronio Arbitro. Prodotto da Alberto Grimaldi, con la sceneggiatura di Federico Fellini e Bernardino Zapponi, la fotografia di Giuseppe Rotunno, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le scenografie e i costumi di Danilo Donati, il trucco di Rino Carboni e Luciano Vito e le musiche di Nino Rota, Ilhan Mimaroglu, Tod Dockstader e Andrew Rudin, Fellini Satyricon è interpretato da Martin Potter, Hiram Keller, Max Born, Salvo Randone, Mario Romagnoli, Magali Noël, Capucine, Alain Cuny, Fanfulla, Lucia Bosè, George Eastman, Donyale Luna, Genius, Alvaro Vitali. Come l’opera frammentaria da cui è tratto, il film non ha un’unità narrativa ben definita e lineare: la scena della cena di Trimalcione, liberto arricchito ma ignorante e volgare, è l’unica parte completa ripresa dall’opera di Petronio. Il film non è una trasposizione letterale dell’originale. Tra le principali modifiche apportate dal regista c’è l’aggiunta dell’episodio dell’oracolo ermafrodita. Altre interpolazioni di Fellini sono l’episodio del minotauro nel labirinto (che prima cerca di uccidere Encolpio, per poi riconciliarsi con lui e cercare di baciarlo), e quello della donna ninfomane il cui marito ingaggia Ascilto perché la soddisfi.
Trama
Nella Roma di Nerone due giovani scioperati, Encolpio e Ascilto, passano attraverso avventure e dissolutezze d’ogni genere inseguendo il bel Gitone, del quale si contendono i favori. Tra i personaggi che incontrano vi sono l’attore Vernacchio, l’Ermafrodito, il Minotauro, il liberto arricchito Trimalcione e il poeta Eumolpo, in una storia d’iniziazione dall’esito tragico.
“L’aspetto più tentante di questa operazione cinematografica (…) è quello di evocare questo mondo non attraverso il frutto di una documentazione scolastica, libresca, di una letterale fedeltà, ma come l’archeologo con i frammenti di coccio ricostruire qualcosa che allude alla forma di un’anfora o a quella di una statua. Il film attraverso la serie a volte frammentaria dei suoi episodi dovrebbe restituire l’immagine di un mondo scomparso senza completarlo come se quei personaggi, quelle usanze, quegli ambienti vi apparissero per forza medianica richiamati dal loro silenzio da un rituale stregonesco”.
(Federico Fellini, intervista a Vie Nuove, cit. in Cineforum n. 90, 3/1970)
“Ciò che importa, mi sembra, non è la precisione descrittiva, la fedeltà storica, l’aneddoto compiaciutamente erudito, l’organicità narrativa, ma che i personaggi e le loro avventure vivano davanti ai nostri occhi come colti di sorpresa e con la stessa libertà con cui si muovono, si azzuffano, si sbranano, nascono, muoiono, le belve nel folto della giungla quando non sanno di essere spiate. Il film dovrebbe suggerire l’idea di qualcosa che è stato dissepolto, le immagini dovrebbero evocare la terra, la polvere e pertanto il film sarà frammentario, disuguale, ad episodi lunghi e nitidi ne seguiranno altri più lontani, più sfocati, quasi irricostruibili nella loro frammentarietà, cocci, briciole, polvere di un mondo scomparso. Certo, è difficile cancellare dalla nostra coscienza duemila anni di storia e di cristianesimo e porci davanti ai miti, agli atteggiamenti, ai costumi di popoli che ci hanno preceduto, senza giudicarli, senza farne oggetto di un compiacimento moralistico, senza riserve critiche, senza inibizioni psicologiche, senza pregiudizi, ma credo che lo sforzo sarebbe proprio quello di tentare l’evocazione di questo mondo e di saperlo guardare con l’occhio limpido, sereno, distaccato. Se gli altri film sono stati opulenti, barocchi, questo, invece, è anche figurativamente diverso. L’ho voluto più contenuto, senza eccessi, senza sbavature; più essenziale, più «casto». L’intenzione è stata questa. raccontare in maniera meno istrionica. Non solo: ma anche il modo di raccontare i vari episodi questa volta è un po’ diverso. Ho tentato, infatti, di sovvertire quelle regole a cui lo spettatore è abituato da anni, cioè una specie di tastiera che viene premuta a comando. qui il momento della risata, qui la suspense, qui la commozione, qui si chiude. Ma perché mai? Chi l’ha detto? A furia di imbastire tilm su queste regole abbiamo abituato lo spettatore a un ritmo obbligato, ovvio, tutto esterno. No, nel Satyricon ho voluto assolutamente liberarmene. Il racconto, se mi è riuscito, deve procedere soltanto da una necessità interiore, come in un poema o in un romanzo. Sì, questa è anche una operazione anticinematografica e piuttosto rischiosa”.
(Federico Fellini, intervista all’ANSA, cit. in Cineforum n. 90, 3/1970)
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