Sofia Carmina Coppola è quel che si può definire un chiaro successo riproduttivo: i paterni geni artistici di F.F. Coppola, trovano in essa la loro degna erede, essendo disposti e predisposti a nuova linfa con la loro personalità e autenticità.
Seguendo il filo psicologico, sulla figura materna che si pone come base sicura per un’ottimale crescita, secondo la teoria dell’attaccamento enunciata dal rinomato psicoanalista John Bowlby, ci troviamo di fronte all’evidenza di quanto a volte la genitorialità possa essere il rovescio di una medaglia darwiniana, portando la progenie a rovinosi avvii, estremi in casi gravi, per la sua evoluzione naturale.
Il giardino delle vergini suicide, magistrale lavoro di Sofia Coppola è un terso segno su come le inclinazioni spontanee della prole vengano soffocate all’estremo per amor di un’ipocrita apparenza verso la tanto sospirata accettabilità sociale. La macchina da presa della regista, con decisione ma femminile e delicata discrezione, si concentra sulla mimica fanciullesca, regalando allo spettatore inquadrature ravvicinate di primi piani brillanti, come per accentuare l’importanza delle reazioni emotive adolescenziali, disegni psichici di mal celato disagio, proiettando poi il secondo occhio all’esterno, calpestando curati giardini di un quartiere residenziale e borghese di Detroit nella contea del Michigan, intensificando il conflitto tra perbenismo conformista e la quasi selvaggia, ma dannatamente vera e naturale istintività acerba, priva di vezzi ed artifici.
In realtà il contrasto lo si ravvisa anche dagli scatti pieni e sentimentali della fotografia di Edward Lachman, il quale mette a fuoco tutta la contraddizione tra valori materni di canonicità fobica a braccetto con la nevrosi, che va in collisione con l’effervescenza dell’animo filiale, rovistando con il suo obiettivo tra caotici ambienti domestici giovanili, abitati da icone sacre, simboli dei materni insegnamenti preposti, giacenti con disinvoltura accanto a candidi indumenti intimi adagiati sul pavimento, che comunicano la dolce ingenuità e le prime ribellioni. Se si potessero ascoltare le immagini, si udirebbe un imploso e quindi muto grido di aiuto, uno dei pochi segni visibili di protesta.
Anche la colonna sonora viene utilizzata come creativo e drammatico ambasciatore per decifrare gli imploranti messaggi, rimanendo nell’orecchio e la mente dell’uditore – spettatore, lasciandosi canticchiare per svariato tempo dopo la fine della pellicola, grazie alla presenza dei brani di Todd Rundgren con Hello it’s me, Sloan- Everything you’ ve fine wrong, Heart- Magic Man, e che ascoltandone le parole fanno entrare nello stato d’ animo delle protagoniste, fragili ma vive.
Sofia Coppola centra l’immagine della delicata fragilità delle bionde eteree sorelle, con un cast ad hoc, similari nei tratti somatici, ma con personalità ben strutturate, ognuna con la loro particolare unicità, come è giusto che sia così in natura. Kirsten Dunst, scelta per il ruolo della sensuale e finta timida Lux, Hanna R.Hall nella piccola ma molto arguta Cecilia, A. J. Cook la riflessiva Mary e infine Chelse Swain la forse più accondiscendente e remissiva Bonnie.
Occhio attento anche nella scelta della coppia genitoriale, composta da un indeciso e quasi infantile James Woods (Max Bercovicz in C’era una volta in America di Sergio Leone) e Kathleen Turner, qui irreprensibile ma insicura madre, ma che si ricorda anche per il ruolo della nevrotica Barbara Rose, ne La Guerra dei Roses, pellicola del 1989 diretta da Denny De Vito e che qui troviamo nelle vesti di uno psicologo.
Sofia Coppola, da talentuosa figlia d’arte, ha dimostrato, pur facendo tesoro della saggezza paterna, di tracciare e percorrere strade artistiche personali, firmando le sue opere con la sua impronta di unicità, dandogli brillante vita e plasmando la cinepresa con elegante poesia. Le sue Vergini Suicide oltre ad essere un occhio sulla verità della natura umana è un chiaro messaggio (questa volta non tacito), a non cadere nella trappola della possessività genitoriale, dove i figli non sono un prolungamento di un padre o madre, bensì esseri meravigliosi con una propria e ben definita immagine della vita, con il tesoro di un’anima variopinta, meravigliosamente unica e diversa, la quale va esortata nel compiere le proprie scelte, rimanendo per loro basi sicure, ma lasciando che l’abbraccio divenga un porto nei momenti di tempesta e non una prigione senza via d’uscita.
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