Disponibile on line La donna che visse due volte (Vertigo), un film del 1958 diretto da Alfred Hitchcock. Il film è tratto dal romanzo omonimo del 1954, scritto da Thomas Narcejac e Pierre Boileau. Il film ebbe scarso successo di pubblico e accoglienza tiepida da parte dei critici. Solo più tardi, durante gli anni sessanta, i cinefili incominciarono a rivalutarlo e a riscoprirlo. Giustamente famosi i contributi tecnici del compositore Bernard Herrmann, con una partitura musicale ispirata al melodramma italiano e alla sinfonia I pianeti (Saturno) di Gustav Holst e del title designer Saul Bass, autore della sequenza introduttiva. Si individuano anche riferimenti alla magica e infiammata musica di Le Valchirie e del Liebestod da Tristano e Isotta (molto appropriata alla favola moderna delle due Isotte). Con James Stewart, Kim Novak, Barbara Bel Geddes, Henry Jones, Tom Helmore, Raymond Bailey, Ellen Corby, Konstantin Shayne, Lee Patrick.
Trama
A causa delle sue vertigini, l’agente Ferguson è a riposo per non aver impedito un incidente mortale a un collega. Un amico gli chiede di sorvegliare sua moglie, che ha manie suicide. Di fronte a Ferguson, paralizzato dalle vertigini, la donna si butta da un campanile, o almeno così crede il povero agente. Ma un giorno un incontro casuale rimette tutto in gioco.
“Includendo lo spettatore nel film, e il film nell’immagine mentale, Hitchcock dà al cinema una forma compiuta. Tuttavia, alcuni dei più bei film di Hitchcock lasciano apparire il presentimento di una domanda importante. La donna che visse due volte ci comunica una vera e propria vertigine; quanto è vertiginoso, nel cuore stesso dell’eroina, è la relazione della Stessa con la Stessa che passa attraverso tutte le variazioni dei suoi rapporti con gli altri (la donna morta, il marito, l’investigatore). Ma non possiamo dimenticare l’altra vertigine, più comune, quella dell’investigatore incapace di salire la scala del campanile, perché vive in uno strano stato di contemplazione che si comunica a tutto il film e che è raro in Hitchcock”.
(Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984)
“Vertigo mi appare come il terzo elemento di un trittico i cui primi due erano costituiti da Finestra sul cortile e L’uomo che sapeva troppo. Questi tre film sono dei film di architettura. Prima di tutto per l’abbondanza che incontriamo, in tutti e tre, di motivi architettonici, nel senso proprio del termine. In Vertigo tutta la prima mezz’ora è anzi una sorta di documentario sull’arredo urbano di San Francisco. Il motivo di fondo ci è dato da un certo numero di abitazioni stile ‘900 sulle quali l’obiettivo della macchina da presa ama indugiare, così come in passato aveva indugiato, in Caccia al ladro, sui luoghi della Costa Azzurra. La loro ragion d’essere immediata, pratica, è che creano un senso di smarrimento nel tempo. Simbolizzano quel passato verso il quale si rivolgono tanto gli sguardi del detective quanto quelli della folle presunta. Qui la figura – i titoli di testa di Saul Bass ce la disegnano – è quella della spirale o, più esattamente, dell’elicoide. Retta e cerchio si congiungono attraverso l’intervento di una terza dimensione: la profondità. A dire la verità, non troveremo che due spirali materialmente rappresentate in tutto il film, quella della ciocca di capelli che scende sulla nuca di Madeleine, copia di quella di Carlotta Valdès, e non dimentichiamo che è questa che suscita il desiderio nel detective, e poi quella della scala che sale alla torre. Per il resto, l’elica sarà ideale. Idee e forme seguono lo stesso percorso, ed è perché la forma è pura, bella, rigorosa, straordinariamente ricca e libera, che si può dire che i film di Hitchcock, e Vertigo in testa, hanno come oggetti – oltre a quelli con i quali riescono ad avvincere i nostri sensi – le Idee, nel senso nobile, platonico, del termine”.
(Eric Rohmer, Cahiers du cinéma, n. 93, 1959)
“È nella piega del boccolo dell’acconciatura di Madeleine Elster che si arrotola e srotola un senso che sfugge continuamente, preso in un vorticoso movimento circolare che impedisce di fissarlo anche per un solo istante. E Scottie vi precipita dentro, come in una vertigine che ipnotizza, un buco nero che risucchia tutto ciò che gli si avvicina. È la tenace ambivalenza di ciò che appare a frastornare l’investigatore, a farlo inabissare. Un piano di realtà che non è mai univoco, uno spazio che è liscio e striato; un tempo che non è solo cronologico, ma anche incalcolabile durata emotiva. Scottie, in un certo senso, si azzarda a fissare lo sguardo nel punto esatto in cui l’immagine si biforca, dove il cristallo mostra i riflessi che frammentano la realtà, non permettendo di ricomporla in unità comprensibile, un po’ come nella celebre sequenza finale degli specchi de La signora di Shangai di Orson Welles. Teme, e allo stesso tempo ne è irresistibilmente attratto, tale disorientamento, in quanto intuisce che l’angoscia provocata dalla deriva cognitiva è necessaria per poter approdare da qualche parte, evitando di navigare a vuoto verso un’illusoria terra da colonizzare. L’epilogo sembrerebbe ripristinare l’ordine simbolico, ma ormai Scottie ha compiuto un’esperienza “eccessiva” che ne ha riformulato completamente l’identità, facendone un “soggetto eccentrico”, uno che ha osato guardare al di là dei limiti della Rappresentazione”.
(Luca Biscontini)
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