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Ti trovi qui: Home / Articoli / Disponibile on line Lola Montès, l’ultimo film di Max Ophüls

Disponibile on line Lola Montès, l’ultimo film di Max Ophüls

Luca Biscontini Articoli Giu 14th, 2023 0 Comment

Disponibile on line Lola Montès, un film del 1955 diretto da Max Ophüls, tratto da un romanzo di Cécil Saint-Laurent, basato sulla vita della danzatrice Lola Montez. La realizzazione del film, concepito come uno dei più ambiziosi progetti europei, con un budget di 1 milione e mezzo di dollari, un record, sino ad allora, per la Francia, fu segnata da continui contrasti dei produttori col regista. Ophüls, al suo ultimo film, prima che la morte lo cogliesse nel 1957 ad Amburgo, anche a seguito del logorio di questa battaglia, dovette accettare, la “star sexy” del cinema francese Martine Carol, nel ruolo della protagonista e inoltre l’imposizione del formato CinemaScope e la realizzazione di una triplice versione del film: francese, tedesca e inglese (solo le prime due furono poi effettivamente portate a compimento). Con Martine Carol, Peter Ustinov, Anton Walbrook, Ivan Desny.

Trama
Sotto il tendone di un circo, Lola Montès, contessa Maria Dolores de Lansfeld, rivive il suo passato rispondendo alle domande del pubblico. Dalla sua fuga da casa con l’amante della madre per sottrarsi a un matrimonio impostole con un vegliardo, alla sua collezione di celebri amanti. Poi la parabola discendente, il salto mortale ogni sera nel circo, il bacio della mano concesso per un dollaro.

Max Ophüls e il suo ultimo, splendido, logorante film: Lola Montès (1955) fu un’opera di difficilissima realizzazione, laddove, essendo uno dei più ambiziosi progetti europei per l’epoca, con un budget di un milione e mezzo di dollari – un record, sino ad allora, per la Francia – comportò continui contrasti tra i produttori (Albert Caraco, André Haguet e Anton Schelkopf) e il regista. Il grande cineasta dovette accettare la stella del cinema francese Martine Carol nel ruolo della protagonista, l’imposizione del formato cinemascope (più spettacolare) e, infine, l’obbligo di girare una triplice versione: francese, tedesca e inglese (solo le prime due furono poi effettivamente portate a compimento) per andare incontro alle esigenze del mercato. Di contro, per contratto a Ophüls venne riconosciuta totale autonomia creativa, così i frequenti scontri e le richieste portarono a un enorme aumento dei costi previsti, che costrinsero attori e maestranze a lavorare gratuitamente, conducendo al fallimento della produzione. Per motivi di commercializzazione, fu elaborata una versione finale del film di 110 minuti, tagliata di mezz’ora rispetto a quella voluta dall’autore. Di ulteriori venti fu ridotta quella italiana. Ora, grazie a Viggo e Ripley’s Home video, è disponibile per la prima volta nel mercato italiano la versione integrale francese, proiettata a Parigi nel 1955, l’unica che Ophüls abbia mai riconosciuto, presentata ufficialmente al 61° Festival di Cannes.

Sin dalla lettura del romanzo di Cécil Saint-Laurent, Ophüls aveva inteso sottolinearne gli aspetti legati al progressivo affermarsi della società dello spettacolo, al prevalere delle leggi della pubblicità sulla vita, per spingere la superproduzione a lui affidata “ai limiti dell’autorappresentazione”. A partire da questa esigenza critica, aveva organizzato il soggetto, svuotandolo del suo contenuto drammatico, sia col non rispettare l’ordine cronologico della vicenda, sia restituendo un ritratto spento, inespressivo della protagonista, divenuta materia informe nelle mani del suo artista-impresario, interpretato da un vulcanico Peter Ustinov. Come confidò a François Truffaut, in quel suo ultimo film Ophüls integrò “tutto ciò che di inquieto, torbido, c’era nei giornali di quegli ultimi tre mesi: divorzi hollywoodiani, il tentativo di suicidio di Judy Garland, l’avventura di Rita Hayworth, i circhi americani a tre piste, l’avvento del cinemascope e del cinerama, il dilagare della pubblicità, le iperboli della vita moderna”. Lola Montès ebbe uno scarso successo commerciale e intorno al film si accese un serrato confronto critico, nel quale a favore del regista si schierarono i giovani dei Cahiers du cinéma, oltre a Roberto Rossellini e Jacques Tati.

«Supponiamo uno stato ideale, quale può essere un cristallo perfetto, compiuto. Le immagini di Ophüls sono cristalli perfetti. Le loro faccette sono specchi in sbieco come in I gioielli di madame de… (Madame de…). E gli specchi non si accontentano di riflettere l’immagine attuale, formano il prisma, la lente i cui l’immagine sdoppiata continua a rincorrere se stessa per raggiungersi, come sulla pista del circo di Lola Montès. Sulla pista o nel cristallo, i personaggi imprigionati si agitano, agenti e agiti […]. A malapena ci si gira nel cristallo: da qui il girotondo degli episodi, ma anche dei colori […]. La perfezione cristallina non lascia sussistere nessun fuori: non esiste un di fuori dello specchio o della scena, ma solo un rovescio dove passano i personaggi che spariscono o muoiono, abbandonati dalla vita che si rigetta nella scena. […].E fin nei suoi ‘a parte’ teneri e familiari, lo spietato Lola Montès non cessa di reiniettare nella scena la protagonista. In Lola Montès l’immagine attuale e l’immagine virtuale coesistono e si cristallizzano, entrano in un circuito che ci porta costantemente dall’una all’altra, formano una sola e stessa scena, in cui i personaggi appartengono al reale e tuttavia recitano un ruolo. Tutto il reale, insomma, la vita interiore, è diventata spettacolo, in conformità all’esigenza di una percezione ottica e sonora pura. La scena, allora, non si accontenta di fornire una sequenza, diventa l’unità cinematografica che sostituisce il piano o costituisce il piano-sequenza».

Così, nel fondamentale testo L’immagine –tempo, Gilles Deleuze rende conto della complessità dell’elaborazione dell’immagine attuata da Ophüls in Lola Montès. Quello che di primo acchito sembrerebbe lo srotolarsi di una prevedibile dialettica tra il passato e il presente della protagonista in realtà, a ben guardare, si rivela una sorta di nastro di Möbius in cui cade la soglia che separa il virtuale (il passato) dall’attuale (il presente), in un gioco (drammatico, in questo caso) tra dritto e rovescio, laddove la vita è congelata nell’algida estetica di un variopinto spettacolo da circo. L’imbonitore (Ustinov) non è, a rigore, un uomo cattivo, piuttosto un individuo che è stato travolto dal gelido tocco di una logica che prevede la messa in scena sistematica di ogni fenomeno, non solo reale ma anche interiore. È in questa rappresentazione dell’onnivora dimensione dello spettacolo (del capitale) che risiede la voluta mancanza di pietà dello sguardo di Ophüls, il quale, si potrebbe dire, utilizza il cinema contro il cinema o, per la precisione, contro una certa idea di cinema. Insomma, il regista riuscì eroicamente a mettere in piede un grande contro spettacolo, la cui dimensione estetica si fondava su una mortificante indifferenziazione: una macchina mortale che riterritorializza qualunque movimento si azzardi a smarcare il muro semiotico di un ordine simbolico follemente teso a fissare ogni elemento in una raccapricciante messa in scena di ogni aspetto dell’esistenza. Lola, infatti, anche nei vari flash back che puntellano il film, più che un essere umano, sembra una marionetta, il cui agire è il frutto di circostanze che ignora; non prova davvero dolore, piuttosto pare rassegnata a concretizzare un fatale destino il cui epilogo la vede divenire un’assurda attrazione da circo, costretta a dare in pasto a un pubblico volgare e morbosamente voyerista ogni dettaglio, anche il più intimo, della propria vita: una sorta di “grande fratello” ante litteram, che il regista fu in grado di immaginare profeticamente e genialmente più di sessant’anni fa. Il cinema, allora, diveniva un’interfaccia che esibiva impudicamente anche il fuori campo: come giustamente notava Deleuze, non c’è infatti, un fuori in Lola Montès, è tutto drammaticamente dentro; alla dialettica dentro-fuori si sostituisce un piano a doppio strato che ingloba tutto. Un dispositivo mostruoso che rende indistinguibili la Storia (il passato) e la narrazione di essa (il presente), un buco nero in cui precipita anche ciò che per sua natura sfugge (l’eccedenza della vita).

Se questa lettura è verosimile, è chiaro che Lola Montès non aveva l’ambizione di piacere al pubblico, piuttosto di contestarlo, scioccarlo, mostrandogli quanto la mostruosità del suo sguardo avesse prodotto una degenerazione mortale, un imbarbarimento che stava provocando non solo un impoverimento estetico delle immagini ma anche, e soprattutto, un pericolosissimo decadimento della vita, condannata a rimanere sprovvista di quella imprescindibile riserva di senso che non ammette rappresentazioni, traduzioni, simbolizzazioni. In questa prospettiva, allora, l’ultimo, immenso, capolavoro di Ophüls appare come un disperato commiato, un testamento attraverso cui il grande cineasta fornì un inquietante ammonimento sul percorso che l’umanità, già da allora, aveva pericolosamente cominciato a percorrere. Lola Montès è un film straordinario, su cui si devono scrivere ancora molte significative pagine, un’opera d’arte che è contemporaneamente un saggio critico sulla dimensione ontologica dell’immagine, che ha consegnato definitivamente il suo autore alla Storia del cinema.

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