La redazione di InsidetheShow ha avuto il piacere di incontrare una delle più belle voci del doppiaggio italiano, Chiara Gioncardi, che ha prestato e presta la sua voce alle più significative attrici d’oltreoceano, come Rooney Mara in The Social Network, Carol e Lion, Lupita Nyong’o in Star Wars, Black Panther: Wakanda Forever, e Jessica Chastain nella miniserie televisiva del 2021 di Hagai Levi, Scene da un matrimonio, per citarne solo qualcuna.
Oggi abbiamo il piacere di parlare con Chiara Gioncardi, magnifica doppiatrice, che ha prestato la sua voce alle più affascinanti interpreti del cinema Hollywoodiano. Ciao Chiara, grazie di averci dedicato il tuo tempo. Chiara di nome e di fatto, con la tua delicatezza vocale e armonica dai colori pastello, che cattura l’orecchio dello spettatore italiano; com’è iniziata questa passione, che poi è divenuta il tuo lavoro?
Grazie a voi innanzitutto! Allora, ho iniziato sin da piccola ad avere una curiosità verso l’uso della voce e quindi sin dalle elementari e poi alle medie mi piaceva scherzare con questo strumento, fare le imitazioni capendo come si poteva cambiare e modulare la voce; poi sono figlia di un attore, Salvatore Gioncardi, che ha fatto teatro cinema TV e anche doppiaggio e questo sicuramente ha velocizzato questa passione. Mio padre non mi ha mai introdotto nel mondo del doppiaggio da piccola e questo mi ha dato la possibilità di studiare e di fare altre cose per poi capire che la mia strada era questa. Guardavo i telefilm e dai doppiatori ascoltavo la dizione, mentre con in mano il DOP andavo a cercare la giusta pronuncia delle parole, segnandomele e utilizzando i sottotitoli alla pagina 777 di Televideo per esercitarmi. Recitare è sicuramente in parte un gene di famiglia, del quale mi è stata tramandata sicuramente la sensibilità per il teatro, per il cinema e per l’arte in generale; da mio padre in primis e poi a scuola, dove ha avuto la fortuna di avere come professore Alfredo Bernacchia, una persona davvero speciale, il quale insegnava la materia di educazione all’immagine, grazie al quale abbiamo imparato a stare in camera oscura, lavorare con le immagini, con le foto, vedere i film e fare dei corti.
Devo dirti che la mia prima passione alle medie fu il montaggio, avrei voluto fare quello, poi durante tutto il liceo si è sviluppata questa attrazione verso le voci e verso il mestiere del doppiaggio. Intorno ai 17 anni chiesi a mio padre dove potevo andare ad imparare questo meraviglioso mestiere; essendo un mestiere artigianale, come il garzone che va in bottega e impara rubando con gli occhi, allo stesso modo ho fatto io, andando ad assistere nelle sale di doppiaggio. Parallelamente, ho cominciato a recitare nella compagnia di teatro per ragazzi di Renata Zamengo, girando nei migliori teatri, all’italiana, dove mettevamo in scena i testi di Dacia Maraini, montando e smontando le scene, imparando così a costruire uno spettacolo. In seguito capitò l’occasione di entrare a far parte della compagnia di Flavio Bucci, dove rimasi per parecchi anni, facendo tournè per tutta Italia, dandomi così la possibilità di crescere tanto, di conoscere il mio Paese; insomma è stato un arricchimento importante. Nel frattempo ho cominciato la lunga gavetta del doppiaggio, brusii, piccoli ruoli, fin quando poco a poco ho cominciato a fare cose sempre più importanti, crescendo professionalmente, grazie a ruoli più complessi.
Questo è stato l’iter, lungo ma soddisfacente; ognuno poi ha il suo percorso, nel senso che c’è chi inizia quando è piccolo, impara la tecnica del doppiaggio molto presto e quindi è facilitato in un certo senso, perché è vero che si tratta di un lavoro attoriale, ma è anche un lavoro fatto di tantissima tecnica. Poi c’è chi comincia dopo essersi formato come attore per poi specializzarsi in questo mestiere particolare, che prevede soltanto l’utilizzo di uno strumento, ovvero la voce.
Tu hai comunque una base artistica teatrale che è contraddistinta poi dalle tue doti recitative, rispetto a chi non ha mai calpestato il palcoscenico; secondo te è, indispensabile che un buon attore, doppiatore, per essere diretto e per entrare a contatto con le emozioni del pubblico, debba avere un bagaglio accademico teatrale?
Sicuramente per poter essere un bravo attore che sia di teatro, cinema, doppiaggio, radio o quello che è, studiare la tecnica è importante; bisognerebbe avere una formazione più completa possibile, per avere così maggiori strumenti da utilizzare nelle diverse situazioni. Stare sul palco è diverso che stare davanti ad una cinepresa: l’utilizzo del corpo è diverso. Ovviamente il doppiaggio è tutt’altra cosa, però non si può prescindere dal saper conoscere come utilizzare il proprio corpo, il proprio volto, le sfumature della voce e la sua educazione.
La veridicità che si cerca, attraverso una conoscenza consapevole, diventa la cosa più funzionale ed efficace; tu prima parlavi ad esempio delle emozioni: le emozioni arrivano se c’è verità. In generale, sia sul palco, che nel cinema e nel doppiaggio, la cosa più importante è la ricerca della verità. Non bisogna essere il personaggio che si interpreta, ma bisogna essere credibili attraverso le proprie emozioni, perché il pubblico deve credere a quella verità a prescindere che tu sia su un palco o davanti ad una cinepresa e, con la tecnica, si è più avvantaggiati a tirare fuori l’istinto, l’intelligenza emotiva e attoriale assieme al gusto.
Ci sono tanti altri fattori che subentrano, però sicuramente chi ha un bagaglio attoriale o ha fatto determinate esperienze è più completo. Esistono anche grandissimi doppiatori che hanno iniziato da bambini e non hanno mai fatto teatro oppure cinema, ma questo non vuol dire che non siano attori, semplicemente utilizzano solo uno strumento del proprio corpo. Tanti attori di cinema che non hanno mai fatto teatro , quando li metti davanti ad un microfono ad, esempio, hanno difficoltà ad esprimersi soltanto con quello strumento. Purtroppo in Italia siamo un po’ settoriali e oggi è un po’ più difficile trovare il Giancarlo Giannini o il Gigi Proietti che sa fare tutto, perché le scuole tendono a settorializzare, facendo propendere per una precisa specializzazione, proprio perché qui in Italia è difficile lavorare in generale; parlando poi del settore spettacolo, il discorso è ancora più complesso.
Salvatore Gioncardi, oltre ad essere tuo padre, è stato un bravissimo attore, sia di teatro che di cinema scomparso poco tempo fa; lui è stato l’ espressivo interprete di Michele Navarra in Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, ha lavorato ne Il Caso Moro, diretto da Giuseppe Ferrara e ne La Piovra di Damiano Damiani. Cosa hai preso dall’esperienza paterna, anche se tu hai sviluppato il tuo personale bagaglio artistico e stai percorrendo la tua strada?
Sicuramente da mio padre ho ereditato la sensibilità e anche il tormento che fa parte dell’essere attore. Gli anni in cui iniziò lui a fare teatro, erano periodi culturalmente diversi. Ricordo le attese di mio padre, ogni volta che aspettava la conferma per una scrittura. Ha avuto esperienze teatrali importanti, è stato nella compagnia di Peppino De Filippo, ma nonostante questo c’ era sempre l’ansia dell’attesa e dell’approvazione. In questo mestiere bisogna anche sapersi districare negli ambienti giusti, perché il mestiere dell’ attore è fatto anche di pubbliche relazioni. Questa caratteristica è difficile averla. Per quel che mi riguarda, ho sempre avuto l’istinto alla concretezza nel cercare una strada più realistica che andasse meno verso le frustrazioni del mestiere, perché quando non si vince un provino o vieni scelto per quel progetto a cui tenevi si può andare incontro alle delusioni e alla tristezza. Devo dire che sono stata forte in questo, perché ho cercato di specializzarmi in questo settore che è molto meritocratico, dove non si può mentire: o sei bravo o non sei bravo! Diciamo che sentirai sempre parlare del doppiaggio come un settore familiare di caste, di famiglie, ma come in qualsiasi lavoro, del resto. Sicuramente nello spettacolo è più evidente, però se ti fai valere per quello che sai fare è difficile non riuscire.
Parliamo di covid; abbiamo avuto due anni pazzeschi, che hanno devsastato l’industria e il mercato cinematografico, per non parlare delle sale: quanto ha risentito invece il doppiaggio nel periodo pandemia?
Rispetto agli altri settori siamo stati molto fortunati, perché facendo parte del settore comunicazione (il nostro è un lavoro di servizio di traduzione), siamo stati fermi relativamente poco rispetto al cinema e al teatro. Abbiamo avuto restrizioni minori sicuramente, rispetto a chi stava sul set, sul quale ogni settimana bisognava fare i tamponi. Noi, paradossalmente, pur lavorando in sale piccole, abbiamo avuto dei protocolli un po’ più blandi. Certo, si lavorava sempre da soli, si doveva accedere ovviamente con Green pass e autocertificazioni e le sale venivano sanificate ad ogni turno ogni volta che usciva un attore, però rispetto al teatro o un set cinematografico siamo stati molto fortunati. Sicuramente ne abbiamo risentito, i set erano bloccati in tutto il mondo e quindi abbiamo avuto un fermo successivo dovuto ai materiali che non arrivavano. Quindi sì, da questo punto di vista c’è stato un grosso calo, ma sicuramente la grossa difficoltà si è avvertita per il modo di lavorare, anche se questo era avvenuto già da prima, con l’ avvento delle piattaforme.
Già da prima della pandemia erano state introdotte restrizioni rispetto all’accesso negli studi, che si traducono in tornelli e in badge per entrare. Si può accedere solo se convocati. In pandemia, i turni di brusio, che normalmente prevedono tanti attori al leggìo, erano impensabili. Lavorare insieme, tutt’oggi e’ impossibile. Mentre prima si facevano le scene in tre, quattro, adesso bisogna stare da soli, ovvero lavorare in colonna separata, e sicuramente se ne risente anche a livello qualitativo. Con la ripresa del lavoro, ci siamo ritrovati a fare tante serie e tanti tv movie, perché non essendoci state le uscite nelle sale, tanti film sono andati in piattaforma; tutto ciò si è tradotto in una modalità di lavoro differente dovendo essere più veloci per consentire un’uscita rapida del film su piattaforma e questo, in alcuni casi, ha penalizzato la qualità.
Un’altra domanda che pongo spesso è proprio l’avvento delle piattaforme nel periodo pandemia, che in quel periodo hanno trovato ampio margine di risoluzione per l’audiovisivo, in mancanza appunto delle sale cinematografiche e a discapito di una socialità che è venuta a mancare. Quali sono secondo te (domanda apparentemente banale), i pro e i contro delle piattaforme?
Sicuramente da un punto di vista produttivo per noi c’è stato più lavoro, perché più sono le piattaforme e più c’è produzione, ovvero più producono serie e più per noi è lavoro. Come dicevo, molti film destinati alla sala, sono usciti sulle piattaforme e quindi da una parte c’è stato per noi un aumento del lavoro e delle tempistiche produttive; dall’altra, mi intristisce molto, nel senso che mi rendo conto quando vado al cinema, (non spesso quanto vorrei), che tutt’oggi le sale sono semi vuote. Le persone fanno fatica ad uscire di casa, anche perché c’è più facilità nel vedere l’opera cinematografica recente, uscire abbastanza presto nella piattaforma, quindi la pigrizia incombe. Si fa prima ad aspettare qualche settimana, vedendo poi il film comodamente a casa propria, sulla piattaforma. La gente fa fatica a stare in sala in silenzio, rispettare le altre persone, ma questo anche da prima della pandemia. Il COVID ha peggiorato di gran lunga i rapporti umani, il condividere il silenzio della sala con altra gente; da quando le persone si sono abituate a stare da sole, non hanno più rispetto di chi gli sta accanto, andando verso una preoccupante individualità. Mi è capitato moltissime volte di avere vicino persone che chiacchierano ad alta voce e fanno rumore o che ad un certo punto durante la proiezione, prendono il cellulare in mano disturbando il proprio vicino con la luce del display: temo che si stia scivolando verso una preoccupante individualità.
Il tuo lavoro, come tutti quelli che hanno risvolti artistici, possiedono lati emotivi molto forti. Qual è la prima emozione che avverti, ogni volta che indossi le cuffie e inizi a doppiare?
Sicuramente è presente il senso di responsabilità e di rispetto verso l’opera originale, per essere il più aderente possibile alla vocalità dell’attrice. Quando si doppia un film le scene sono divise in anelli, piccoli tralci di dialogo che vengono osservati singolarmente dopo aver letto il copione e ciò che si ascolta in cuffia è la voce originale dell’attore, che si andrà poi a coprire con la voce del doppiatore. L’ importante è che in ogni prodotto, che sia una pellicola di azione o di altro genere, la passione deve essere il motore propulsivo, insieme al gusto del divertimento. Recitare, come diceva Monica Vitti, è un grande gioco e la leggerezza aiuta ad avere padronanza, così tutto diventa più facile.
Ovviamente, più le attrici sullo schermo sono brave e più diventa semplice, basta guardare le loro espressioni, gli occhi, il respiro. Per questo un doppiatore dovrebbe essere un bravo osservatore, mantenendo naturalmente il proprio modo di recitare e di pensare le battute.
Chiara, quali sono i tuoi progetti nel futuro prossimo?
Su Netflix è appena uscita la nuova serie di Zero Calcare in cui doppio Sarah nel livello narrativo della “ realtà” della storia. Sul grande schermo, a luglio, uscirà Barbie, di Greta Gerwig, dove sarò la voce di Barbie Weird, mentre a settembre uscirà Asteroid City di Wes Anderson, dove presto la voce a Scarlett Johansson.
Andate al cinema ragazzi, scegliete voi poi se vederli doppiati oppure in lingua originale, ma andate nelle sale!
Grazie Chiara per questo meraviglioso viaggio nel mondo del doppiaggio. Buon lavoro!
Grazie a voi!
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