Disponibile su YouTube Metello, un film del 1970 diretto da Mauro Bolognini, tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini. Presentato in concorso al 23º Festival di Cannes, valse a Ottavia Piccolo il premio per la migliore interpretazione femminile. Massimo Ranieri, essendo napoletano, venne doppiato con cadenza fiorentina da Rodolfo Baldini. Prodotto da Gianni Hecht Lucari, con la sceneggiatura di Luigi Bazzoni, Mauro Bolognini, Suso Cecchi d’Amico e Ugo Pirro, la fotografia di Ennio Guarnieri, il monyaggio di Nino Baragli, le scenografie di Guido Josia, con la supervisione di Piero Tosi, e le musiche di Ennio Morricone, Metello è interpretato da Massimo Ranieri, Ottavia Piccolo, Tina Aumont, Lucia Bosé, Frank Wolff, Pino Colizzi, Mariano Rigillo, Luigi Diberti, Manuela Andrei. Il film si aggiudicò il premio per la migliore interpretazione femminile (Ottavia Piccolo) al Festival di Cannes, tre David di Donatello (miglior film a Mauro Bolognini e Gianni Hecht Lucari, David speciale a Ottavia Piccolo, David speciale a Massimo Ranieri), due Nastri d’Argento (migliore attrice protagonista a Ottavia Piccolo, migliore scenografia a Guido Josia) e due Globi d’Oro (miglior attore rivelazione a Massimo Ranieri, miglior attrice rivelazione a Ottavia Piccolo).
Trama
Rimasto orfano Metello trova lavoro come muratore nel cantiere di un ex operaio diventato ingegnere che, dimentico delle sue origini, è diventato uno sfruttatore senza scrupoli. Arrestato per essersi scontrato con la forza pubblica, mandata a proibire una manifestazione in seguito alla morte di un muratore anarchico, all’uscita dal carcere trova ad aspettarlo Ersilia, la figlia dell’ingegnere. Nel frattempo a Firenze si è fatto strada l’ideale socialista e Metello, abbandonati gli anarchici, partecipa a una manifestazione per ottenere salari più decorosi.
“1970: con la direzione di Mauro Bolognini nasce il film Metello. Sembra dipinto. Scena dopo scena, coglie e restituisce immagini di vita. Che narrano la vicenda e le situazioni create da Vasco Pratolini, l’autore del romanzo da cui il film è tratto. A suo modo pittore, Bolognini racconta Firenze rendendola con mano ferma e inconfondibile. I dialoghi, mai una parola di troppo mai una che manchi, disegnano. Il paesaggio ampio. Le strade che lo intersecano. Le case, soprattutto quelle per solito nascoste dal fasto dei palazzi. Case con le facciate tra il sole e l’ombra e i muri che cambiano colore a seconda del momento del giorno, e le finestre ora aperte a guardare la strada e ora chiuse a ripararsene. Case dove si annidano forza e paura. Aspetti della realtà, dalle cose ai sentimenti, nella traccia d’avvio del Novecento. E Firenze. Firenze che rivela ciò che vuole come e quando vuole e con i mezzi che sceglie. Nei portoni e negli atrii, ai cancelli e negli orti, sotto il cielo che si sgombra di nubi e sfavilla. Firenze che respira e che lotta, che cade e si rialza. Che dubita e rinasce. Che si sperde e si ritrova. Città orgogliosa, tormentata, libera e sempre avida di libertà. Ricca di gente e di fatti. E sola a confessarsi con se stessa.
Nel film, proprio quella Firenze pittorica è abbigliata dal tocco di grazia di Piero Tosi. Custodita nei fotogrammi di Mauro Bolognini, indiscusso maestro di inquadrature architettoniche precise al millimetro e infuse di luce, Firenze non si accontenta di fare da sfondo. Si mostra invece veduta vivente. È umanità che non ha bisogno di aggettivi. Il film la svela nella sua essenza più intima, più sincera, e d’abitudine meglio celata. Firenze, costruita di mattoni, di legno, di pietra, e di pensiero. Firenze operaia e artigiana. Centro urbano che conserva a sorpresa angoli di rigogliosa campagna. Firenze che fa sentire le sue voci e i suoi richiami e mette alla prova lasciando solo indovinare il messaggio dei suoi silenzi. E per contrario, il chiasso nei mercati affollati. E i luoghi che parlano della storia che li accompagna. La Camera del Lavoro. Le scale che si arrampicano. Gli alberi del giardino Serristori. Il carcere delle Murate. Il caffè di piazza Piattellina con il lungo bancone e il vin santo brillante nel bicchiere. La città nella quale l’Arno è simbolo di potere: scorre sereno e a ogni tramonto pare addormentarsi, ma sa anche gonfiarsi e ruggire e uccidere. Firenze che splende e si rabbuia. Firenze da non lasciare mai perché «chi emigra muore».
La trama guarda nel profondo, esplora e scopre. Di ciascuno dei personaggi compone l’identità, ritagliandola all’interno dell’ambiente cittadino e della fase storica. Il protagonista si chiama «Salani Metello». Fa il muratore. È un figlio di Firenze. Il film si incentra sulla sua storia con la spontaneità di versi che si direbbero pronunciati così come vengono in mente. A pensarci gli istanti si affollano in disordine, in un ricordo che tuttavia conserva un’armonia propria e non si sfilaccia a distanza di tempo. Metello che si lava la faccia nella fontana di Piazza della Signoria. Metello che si china a baciare il suo bambino adagiato nella culla. Metello che legge «Lotta di classe». Metello che, poggiato contro una porta, ascolta non visto quel che si sta dicendo di lui. Metello che si muove nel cantiere, agile come un gatto sui ponteggi e lassù a un certo punto si volta e di colpo appare molto più vecchio dei suoi anni. Metello che si addormenta con un libro tra le mani. Metello dietro l’inferriata della finestra del carcere. Metello ragazzo e uomo. Interpretato sullo schermo da Massimo Ranieri, giovanissimo e già attore vero.
Nel film il lavoro quotidiano viene evidenziato nei suoi aspetti diversi ed è protagonista. In continuo alternarsi di positivo e negativo. Emergono tensioni che arrivano alla risoluzione ultima nel paradigma della lotta operaia, lo sciopero. L’abbandono del cantiere, il suo vigile presidio, gli sguardi ostili, i fischi. Un percorso rituale con cadenze serrate e inevitabili. E prima di tutto, scontro psicologico. Guerra di logoramento che tende i nervi, esaspera gli animi. La fatica del lavoro si traduce in mezzo di lotta per la giustizia. E rivalsa dell’orgoglio. Il cantiere, con le sue carriole piene di cemento e i suoi mattoni. E le impalcature baciate dal sole, sulle quali si inerpicano a lavorare i manovali. Un equilibrio instabile e rischioso quanto il modo stesso di condurre l’esistenza. Così il cantiere via via assume i contorni di un piccolo mondo aspro e poetico, diventa trincea dove le contrapposizioni possono spingersi sino all’estremo. Nel suo spazio circoscritto si può vincere e perdere. Sulle note della colonna sonora di Ennio Morricone, Firenze si dispiega adagiata nel suo chiarore”.
(Rita Italiano, La Stampa, 22 Aprile 2020)
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