Tratto dalla penna romantica di Gustave Flaubert, Madame Bovary viene ritratta sul grande schermo dalla cinepresa sentimentale e pittoresca di Sophie Barthes: estasi di colori brillanti e arditi che risaltano nel clima agreste in una Normandia di metà ‘800, dove risuona, spaziando tra le sue sconfinate pianure, l’eco della fragilità umana. Immagini eleganti, quelle ostentate dal percorso direttivo della Barthes, volte a risaltare la frivolezza e superficialità per celare la profonda inquietudine ed insoddisfazione dell’animo.
La Barthes chiede in prestito l’inchiostro all’autore francese e attraverso la sua narrazione filmica pone sotto una viva luce il simulacro della vacuità e del tedio incessante che attanaglia e danneggia la mente; Emma Bovary, interpretata da una volubile e bizzosa Mia Wasikowska, la quale grazie al suo piglio bambinesco fu scelta anche per interpretare il ruolo di Alice Kingsleigh in Alice in Wonderland di Tim Burton (2010), attraverso le sue mimiche capricciose infastidisce, ma che tende talvolta ad intenerire, per la sua ingenuità, portando lo spettatore ad un’altalena di sentimenti contrastanti nei riguardi della protagonista.
La cinepresa di Sophie Barthes mai aggressiva nei suoi passaggi, scivola toccando con mano leggera drappeggi damascati e candelabri aurei, invitando con discrezione il pubblico all’interno della dimora padronale Bovary, solo all’apparenza sfarzosa, per confermare poi una difforme realtà, spostando il suo occhio oltre le imposte e concentrandosi su fangose distese madide di pioggia, messaggio contrastante teso a sottolineare la falsa agiatezza per coprire l’imbarazzo di un’esistenza frugale; affanno di un peso segreto dell’anima occultato dalla finta luce della superficialità, quindi.
Ad arricchire ulteriormente il contesto filmico è l’esposizione multipla della fotografia di Andrij Parekh, il quale centra e sostiene il lavoro della Barthes, abbracciando con i suoi scatti pieni e delicati il malessere che imprigiona la psiche, non tralasciando alcun dettaglio sull’ efficacia del messaggio verso chi assiste. A mano a mano che la visione scorre, ci si trova dinanzi ad un romanzo dinamico da sfogliare e ogni suo frame, cambio immagine è un susseguirsi altalenante di vari stati emotivi, che vanno dalla gioia, disperazione, vanità e lussuria, ma che riconducono poi tutti al terrore della costrizione del vuoto vivere, da cui ci si vorrebbe districare, pagando anche il prezzo di cadere fra gli artigli dell’altrui disonestà.
Scelta più riuscita in realtà non poteva esserci, scegliendo Rhys Ifans per incarnare i panni del malvagio ma accattivante commerciante Monsieur L’Heur, che porterà alla rovina, attraverso le sue scaltre doti, Madame Bovary e il suo consorte Dott. Charles Bovary, un sottomesso Henry Lloyd- Hughes.
Vanità e seduzione sono le parole d’ ordine dunque, per Emma Bovary, la quale chiama incessantemente su di sé, oltre all’occhio scrutatore della macchina da presa, il desiderio e l’ attenzione dei suoi due giovani amanti, il sognatore Leon Dupuis , incarnato dal delicato Ezra Miller e l’astuto Marquis , che prende forma grazie al seducente piglio di Logan Marshall- Green.
Il mood romantico normanno viene impreziosito altresì dalle note vezzose e delicate dei due compositori russi naturalizzati francesi, Evgenij e Sasa Gal’ Perin, autori in precedenza della colonna sonora del film. Cose Nostre Malavita di Luc Besson, i quali ricamano e intrecciano in un disegno musicale raffinato, un’atmosfera intimamente avvolgente e drammatica, facendo danzare la cinepresa della Barthes e il suo pubblico, in un minuetto colorato di emotività.
Flaubert trova dunque in Sophie Barthes le immagini giuste per un vivido ritratto filmico, dal quale Emma Bovary troverebbe sicuramente appagata la sua vanità: una dolce amara tela narrativa, intessuta per portare lo spettatore alla comprensione sulla vera essenza dell’essere e della vita.
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