Nato il 10 dicembre del 1907 a Cagliari, Amedeo Nazzari, nome d’arte di Amedeo Carlo Leone Buffa, è stato senza dubbio l’attore che più di tutti ha saputo rappresentare, in epoca fascista (ricordiamo almeno i film Cavalleria, Luciano Serra pilota, Caravaggio, il pittore maledetto, tutti diretti da Goffredo Alessandrini tra il 1936 e il 1941, e ancora La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, 1942, e Harlem di Carmine Gallone, 1943) e poi nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, una valida alternativa al divismo hollywoodiano, ricalcando in parte la propria immagine di attore su quella di alcuni colleghi americani ma, al contempo, portando sul grande schermo personaggi che si prestavano all’esaltazione di un italiano – tipo, valoroso, leale, onesto, attraente: eroe positivo, in poche parole. Nella funzione che il cinema affidò a Nazzari si può scorgere anche la volontà di rivendicare, dopo l’incontrastata affermazione a livello internazionale dei divi di Hollywood dagli anni Venti in poi, un primato italiano: il divismo cinematografico era nato in Italia, negli anni Dieci, grazie all’impulso dato al nostro cinema dall’arrivo dei lungometraggi danesi con Asta Nielsen. Nel 1938 Gianni Puccini scrisse sulla rivista «Cinema»: “Nazzari è il nostro attore, quello per cui i giovani di tutta Italia fanno il tifo, quello sul quale abbiamo le maggiori speranze. Forse è già il maggiore attore del nostro cinema”.
Divo numero uno fino alla caduta di Mussolini, del quale aveva declinato l’invito a prendere la tessera del partito, formatosi dapprima nei palcoscenici teatrali al fianco di mostri sacri come Annibale Ninchi ed Elsa Merlini e poi approdato al cinema con il film di Guido Brignone Ginevra degli Almieri (1935), finita la guerra Nazzari temeva di non riuscire più a restare a galla. Ma prima Alessandro Blasetti con Un giorno nella vita (1946), film sulla lotta partigiana, e poi nello stesso anno Alberto Lattuada con Il bandito – storia di gangsters a tinte noir ambientata nella Torino post bellica – gli diedero l’opportunità di rigenerarsi e, fatta eccezione per una breve parentesi in Sud America, di intraprendere una nuova stagione di successi, soprattutto la preziosa collaborazione con Raffaello Matarazzo nel ciclo di melodrammi interpretati al fianco di Yvonne Sanson tra il 1949 e il 1958: Catene, Tormento, I figli di nessuno, Chi è senza peccato…, Torna!, L’angelo bianco, Malinconico autunno.
Il ruolo di Ernesto nel film di Lattuada, un ruolo per lui inedito, problematico, ma che conservava il fondo buono dei personaggi positivi nei quali il pubblico era abituato a vederlo, gli valse il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista. Dall’immediato dopoguerra fino alla fine di carriera lo hanno diretto registi come Mario Monicelli, Pietro Germi, Riccardo Freda, Mario Soldati, Giuseppe De Santis, Luciano Salce, Luigi Zampa, Federico Fellini e Dino Risi. E ancora, piccole parti con la regia di Terence Young (Il papavero è anche un fiore, 1966, e Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra, 1972), Henri Verneuil (Il clan dei siciliani, 1969), Vincente Minnelli (Nina, 1976) e un breve ma intenso ruolo in un episodio della serie televisiva poliziesca L’ispettore Derrick (L’uomo di Portofino, 1976, andato in onda per la prima volta in Italia nel gennaio del 1979).
Indicativo della perdurante immagine divistica di Nazzari è un sondaggio televisivo promosso dalla trasmissione di Mike Bongiorno Flash nella quale, nel 1982, si chiedeva agli spettatori quali fossero i personaggi del passato (non solo nel mondo dello spettacolo) che incarnavano un vero ideale di uomo. Al primo posto delle preferenze – e si noti che siamo già negli anni Ottanta – c’era proprio Amedeo Nazzari, scomparso da circa tre anni. Sempre negli anni Ottanta, come riporta Giuseppe Gubitosi in un’interessante monografia dedicata all’attore cagliaritano, la critica francese lo ha inserito tra i dieci più grandi attori e divi dei tutti i tempi.
Ma oggi? Il ricordo del grande divo si fa sempre più scolorito e il vizio tutto italiano di accorciare la memoria riemerge ancora una volta, a conferma di una sempre più diffusa insensibilità alla storia e alla cultura. Negli ultimi anni diverse iniziative lo hanno celebrato: ricordiamo con malinconia la Rassegna Cinematografica di Borgio Verezzi, all’inizio del nuovo millennio, intitolata Un volto per la storia… Omaggio ad Amedeo Nazzari. Ma adesso, a oltre quarant’anni dalla sua scomparsa (Amedeo Nazzari è morto a Roma il 5 novembre del 1979), l’oblio sembra essere tristemente sceso su questa splendida figura di eroe popolare: bello, aitante, voce possente, simpatico dongiovanni, paterno e premuroso, modello di virtù e di buoni sentimenti… e in questi tempi così difficili, più che mai avremmo bisogno di buoni sentimenti! Un divo che era anche un antidivo, perché rifuggiva gli appuntamenti mondani e le agende della vacuità imposte dal difficile ambiente dello show business.
Ormai ne siamo perfettamente consapevoli: in Italia c’è troppo spesso la poco rispettosa abitudine a far scivolare nell’oblio le glorie del passato, soprattutto nel campo dell’arte e dello spettacolo. “Il timore che papà venga dimenticato è bruciante”, ha più volte sottolineato la figlia Evelina, che nel 2008 ha curato la pubblicazione di un libro dal titolo Amedeo Buffa in arte Nazzari edito da Edizioni Sabinae. Certo il suo è il ricordo affettuoso di una figlia, che ha perso il padre a soli 21 anni, proprio nel momento in cui il loro rapporto di più intima complicità stava sbocciando. “Era molto tenero, me le dava tutte vinte, o quasi. Si arrabbiava molto raramente. Le regole per fortuna sono arrivate da mia madre”. Ma sarebbe bello che, oltre alla figlia, anche le istituzioni e i palinsesti televisivi lo ricordassero, con una retrospettiva che ne ripercorra la lunga carriera dando anche alle nuove generazioni la possibilità di scoprire il profilo umano e artistico di uno dei più grandi attori italiani.
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