“Il mio nome è Bond, James Bond”. La frase tormentone ci accompagna ormai da oltre sessant’anni, ad ogni immancabile avventura cinematografica di 007, uno dei franchise più longevi e redditizi al mondo. Roger Moore è stato il terzo attore, dopo Sean Connery e George Lazenby, ad impersonare nella serie ufficiale il famoso agente segreto al servizio segreto di Sua Maestà e lo ha fatto, con disinvoltura e un tocco di ironia, per ben sette volte. Il titolo del libro di Mario Galeotti uscito di recente per Weird Book nella collana Revolution e che ripercorre la vita e la carriera dell’attore inglese cita proprio l’ossessionante battuta pronunciata da James Bond nelle sue eroiche imprese in giro per il mondo: Il mio nome è Moore, Roger Moore.
Una lunga diatriba, oggi non ancora esauritasi, ha messo a confronto lo scozzese Sean Connery e l’inglese Roger Moore per stabilire quale dei due sia stato il volto di 007 più rappresentativo. Poco importa. Se negli anni Settanta il ruolo di Bond è servito a consacrare definitivamente la sua carriera a livello planetario, la notorietà Moore l’aveva già ottenuta con i personaggi portati sul piccolo schermo: il coraggioso cavaliere medievale Sir Wilfred nella serie televisiva Ivanhoe, l’avventuriero gentiluomo Simon Templar nella famosa serie Il Santo ispirata ai racconti polizieschi di Leslie Charteris, il bel nobile inglese Brett Sinclair nel telefilm Attenti a quei due in coppia con l’americano Tony Curtis. Il suo trampolino, dunque, fu la televisione, anche se l’attore non ha mai nascosto di preferire il cinema.
Identificato perennemente con una galleria di personaggi positivi, aitanti, intrepidi, Roger Moore era la dimostrazione di quanto l’immagine pubblica di un uomo di spettacolo possa essere lontanissima, il più delle volte, da quella in privato. Sempre elegante e charmant come in tante delle sue caratterizzazioni (non solo quelle più famose), non si può certo dire che nella vita di tutti i giorni fosse altrettanto impavido e atletico. Al contrario, la finzione dei suoi eroi aveva poco a che vedere con la realtà di un uomo che si definiva un codardo, pieno di fobie e che in particolare detestava le armi da fuoco. Forse Moore era più simile al Judd Stevens interpretato a metà anni Ottanta, poco prima di dare l’addio al ruolo di 007, nel thriller A faccia nuda: antieroe dubbioso, spaventato, che ha salva la vita solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine.
Dopo il giro di boa dei sessant’anni, smessi definitivamente i panni dell’uomo di azione, Moore scelse con entusiasmo di dedicarsi a un nuovo ruolo: quello di ambasciatore Unicef, questa volta al servizio segreto dei bambini poveri e denutriti di tutto il mondo. Nobile causa, e nobile fu anche la battaglia che negli ultimi anni lo vide impegnato, con sorprendente spirito animalista, contro il consumo di foie gras, pregiato prodotto della cucina francese ottenuto sottoponendo le oche a un’alimentazione forzata che ne provoca l’innaturale ingrossamento del fegato. Ricordando quei suoi personaggi di playboy o di impavido agente in missione segreta che si aggiravano negli ambienti dell’alta società, tra signore impellicciate, champagne e simboli di un lusso ostentato, sembra quasi incredibile sapere che Roger Moore volle prestare la propria immagine a sostegno dell’associazione PETA (People for Ethical Treatment of Animals) rivolgendo accorati appelli a non acquistare il foie gras nei negozi e a non ordinarlo nei ristoranti, perché “il foie gras è una malattia, non una prelibatezza”. E se il pubblico era abituato a vederlo al volante di belle macchine sportive, alla veneranda età di quasi novant’anni (era nato il 14 ottobre del 1927) lo stesso Roger Moore, ospite nel 2016 del docu-reality Car SOS (in Italia intitolato I maghi del garage) in una puntata dedicata alla mitica Volvo P1800 usata nella serie televisiva The Saint, aveva confessato di muoversi per le strade del Principato di Monaco a bordo di una comunissima Smart.
Con uno sguardo attento e documentato, questo libro – che Giorgio Simonelli, nella bellissima prefazione, definisce “molto coraggioso”, capace di abbattere in un sol colpo alcuni annosi tabù sullo studio del mestiere di attore – vuole ripercorrere il lungo viaggio umano e artistico di Roger Moore, concentrandosi non solo sui personaggi che lo hanno reso famoso e sulla loro matrice letteraria (Leslie Charteris per Simon Templar, Ian Fleming per 007), ma anche su quei ruoli impegnati – pensiamo al personaggio di Harold Pelham nel film L’uomo che uccise se stesso diretto da Basil Dearden – che, a dispetto di una critica non molto riguardosa nei suoi confronti, ne hanno fatto emergere appieno le doti drammatiche. Ed è proprio sul rapporto con la critica che si focalizza il capitolo conclusivo, nel tentativo di fare un bilancio della carriera di Roger Moore e stabilire quale collocazione riservargli nel panorama attoriale del Novecento.
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