Quarant’anni fa, nel 1983, moriva a Città del Messico il geniale e scandaloso regista spagnolo Luis Buňuel. Lo ricordiamo risfogliando con piacere la sua autobiografia dal titolo Dei miei sospiri estremi, uscita per la prima volta un anno prima della sua morte e edita in Italia (tuttora in commercio) da Sellerio. Si tratta di un libro davvero emozionante, un racconto di vita che oltre a comporre un capitolo fondamentale della storia del cinema ripercorre anche alcuni degli avvenimenti cruciali del Novecento nell’arco di quasi tutto il secolo.
Personaggio controverso, provocatorio, cantore del sogno, dell’inconscio, dell’immaginazione, ovvero di quella dimensione fantastica e sotterranea che, come diceva il teorico del surrealismo André Breton, in sostanza non esiste perché tutto è reale, nel libro Luis Buňuel non solo ripercorre la propria carriera dagli esordi surrealisti di fine anni Venti ai successi commerciali degli ultimi film realizzati tra gli anni Sessanta e Settanta, ma si racconta nell’intimo e, con linguaggio semplice e un pizzico di ironia, parla di tutto: l’agiata famiglia d’origine (quella borghesia arricchita che, insieme alla Chiesa, diverrà uno dei bersagli della sua arte eversiva), l’educazione cattolica, gli studi, le prime esperienze di vita, le amicizie, le inclinazioni politiche anarchico comuniste, i vizi, le passioni, il rapporto con la morte. Un’esistenza lunga e intensa, ripercorsa soprattutto attraverso i luoghi nei quali Buňuel ha vissuto e che compongono una geografia non solo urbana ma soprattutto dell’animo. Calanda, il villaggio della bassa Aragona dov’era nato il 22 febbraio del 1900, un villaggio che contava meno di cinquemila abitanti e dove quell’epoca “dolorosa e squisita” che fu il Medioevo, intrisa di spiritualità, era sopravvissuta almeno fino agli anni della Grande Guerra, simbolizzata da un’usanza molto cara al regista: i tamburi, suonati ininterrottamente dal mezzogiorno del Venerdì Santo fino alla stessa ora del giorno dopo. Saragozza, dove la sua famiglia si era trasferita pochi mesi dopo la nascita del piccolo Luis, per risiedere a Calanda solo nei periodi di vacanza: è il capoluogo dell’Aragona, nel nord-est della Spagna, la città in cui Buňuel è cresciuto con una rigida educazione cattolica prima presso i fratelli del Sacro Cuore di Gesù e successivamente nel collegio dei Gesuiti, per poi covare i primi seri dubbi sulla religione e sul clero all’età di quattordici anni, dubbi che lo porteranno a dire con orgoglio “sono ateo, per grazia di Dio”. Madrid, con la residenza universitaria simile a un campus all’inglese, dove rimase per sette anni a partire dal 1917, laureandosi in lettere e stringendo amicizia con personaggi che hanno avuto un peso determinante nella sua formazione (Rafael Alberti, Federico Garcia Lorca, Salvador Dalì). Toledo, una città che lo ha sempre affascinato per la sua “atmosfera indefinibile”. Parigi, dove i genitori lo avevano concepito in viaggio di nozze e dove lui si stabilì nel 1925, dopo la laurea: a Parigi frequentava assiduamente i cinematografi (tra i suoi film preferiti, che gli fecero capire di voler fare cinema, Destino di Fritz Lang, La corazzata Potëmkin di Ėjzenštein, le comiche di Buster Keaton), iniziò a scrivere occasionalmente articoli di critica cinematografica, frequentò l’accademia d’arte drammatica fondata da Jean Epstein e divenne per breve tempo suo assistente sul set, ma soprattutto si mise a frequentare il gruppo surrealista (Man Ray, Max Ernst, André Breton, Tristan Tzara) con tutta la sua carica dirompente, istintiva, irrazionale, il suo rifiuto della morale comune, un’esperienza breve che segnò l’inizio di carriera con due film concepiti insieme a Dalì prima che i rapporti tra i due si incrinassero (Un chien andalou, 1929, che gli attirò minacce e insulti da parte dei benpensanti, e L’ȃge d’or, 1930, ancora più scandaloso tanto da mobilitare gli ambienti di destra e decretarne il ritiro dalla circolazione per circa cinquant’anni). Il Messico, dove nel 1946 – dopo soggiorni hollywoodiani e newyorchesi, la guerra civile spagnola e la vittoria del generale Franco (“Dio e la patria, fianco a fianco. Ci portavano solo repressione e sangue”), una parentesi di produttore anonimo di film commerciali a Madrid – l’incontro casuale e provvidenziale con Oscar Dancingers inaugurò un’intensa attività di sceneggiatore e regista con una ventina di film girati quasi sempre con tempi di lavorazione molto brevi e mezzi limitati, tra i quali ricordiamo almeno I figli della violenza (premio per la miglior regia al Festival di Cannes nel 1951), Le avventure di Robinson Crusoe (in coproduzione con gli Stati Uniti, girato in lingua inglese con un budget più consistente del solito), El (uno dei film ai quali Buňuel era più affezionato), Cime tempestose (esaltazione dell’amour fou, tema prediletto dei surrealisti), El rio y la muerte (che descrive l’usanza messicana a premere con troppa facilità il grilletto, propensione che però aveva poco a che vedere con l’innocuo interesse di Buňuel per le armi), Nazarin (il suo film preferito in assoluto tra quelli realizzati in Messico, premiato al Festival di Cannes nel 1959), Simon del deserto (Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia nel 1964). E ancora Madrid, dov’era tornato all’inizio degli anni Sessanta per girare un altro dei suoi film più scandalosi, Viridiana, e la Francia, dove tra il 1963 e il 1977 realizzò i suoi ultimi film quasi tutti prodotti da Serge Silberman: Diario di una cameriera, Bella di giorno, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia (Oscar per il miglior film straniero nel 1973), Il fantasma della libertà, Quell’oscuro oggetto del desiderio.
Amante dell’alcol e del fumo, frequentatore dei bar che lui considerava luoghi di meditazione e raccoglimento utili a eccitare la fantasia, estimatore delle opere del marchese De Sade, Luis Buňuel si prendeva gioco dei critici che, con la pedanteria di un gergo ricercato, pretendevano di trovare a tutti i costi il senso di questa o quella sequenza, anche quando in realtà le immagini e le soluzioni narrative nascevano senza un significato ben preciso.
Profondo e spirituale a dispetto del suo incrollabile ateismo, diffidava anche della scienza, colpevole di voler capire e spiegare tutto (proprio come i critici che analizzavano la sua filmografia) senza tenere nella dovuta considerazione il sogno, il caso, il sentimento, il mistero della vita. Che poi è anche il mistero della morte. E proprio la morte, ch’è stata sempre una presenza costante dei suoi pensieri in vita fin dalle remote funzioni religiose della Settimana Santa a Calanda e tema ricorrente (insieme al sesso) della sua opera di regista, è al centro delle riflessioni che concludono questo libro entusiasmante scritto da Buňuel insieme all’amico e sceneggiatore Jean-Claude Carrière, testimonianza preziosa di un genio assoluto della storia del cinema. “Dopo il tutto, il niente. Non ci aspetta che la putrefazione, l’odore dolciastro dell’eternità”.
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