Disponibile su RaiPlay La cagna (Liza), un film del 1972 diretto da Marco Ferreri, tratto dalla novella Melampus di Ennio Flaiano. È il primo dei “film francesi” di Ferreri, il quale dirigerà nuovamente la coppia Mastroianni-Deneuve due anni dopo in Non toccare la donna bianca. Originariamente Ennio Flaiano trasse una sceneggiatura dal proprio romanzo breve Melampus con l’intenzione di esordire alla regia, ma il progetto non fu realizzato. Pur accreditato alla sceneggiatura del film diretto da Marco Ferreri, insieme allo stesso regista e a Jean-Claude Carrière, non partecipò in alcun modo alla realizzazione. Prodotto da Alfredo e Luciano Levy, sceneggiato da Marco Ferreri e Jean-Claude Carrière, con la fotografia di Mario Vulpiani, il montaggio di Giuliana Trippa, le scenografie di Luciana Vedovelli Levi, i costumi di Gitt Magrini e Yves Saint-Laurent e le musiche di Philippe Sarde, La cagna è interpretato da Marcello Mastroianni, Catherine Deneuve, Corinne Marchand, Michel Piccoli, Claudine Berg, Dominique Marcas, Luigi Antonio Guerra.
Trama
Giorgio ha cinquant’anni e disegna fumetti. Sentendosi a disagio a Parigi, dove vive, si trasferisce su un’isola poco abitata con il suo cane di nome Melampo. Un giorno sbarca Lisa, che si mostra subito insofferente del cane e lo uccide per sostituirsi a lui nell’ascoltare i monologhi di Giorgio. Cercheranno di tornare insieme a Parigi.
“Idealmente La cagna inizia laddove Dillinger è morto finiva: il protagonista che salpava su un’imbarcazione verso una destinazione da sogno, finalmente libero ma forse per poco dai suoi conflitti interiori (l’incontro con la ragazza, regina di quel microcosmo, potrebbe rompere l’illusione). Lo ritroviamo adesso, il suo nome è Giorgio e ha il volto di Marcello Mastroianni, su un’isoletta sperduta che vive con l’unica compagnia del suo cane Melampo, chiamato così in riferimento al cane che appare in Pinocchio. La sua tranquilla solitudine viene interrotta dallo sbarco improvviso di Liza, non a caso un’altra bionda e affascinante donna, interpretata da Catherine Deneuve.
Ferreri ha il dono di disattendere lo spettatore, merito questo del suo pensiero anticonvenzionale che stuzzica i nervi del tessuto umano e sociale. Liza porterà volontariamente alla morte Melampo (destino già iscritto nel suo nome) per prenderne il posto e diventare di fatto una cagna. Da qui in poi ci si aspetterebbe una storia violenta e morbosa, di schiave maltrattate e padroni intransigenti, con urla scenate e rapporti carnali che se ne sbattono dei sentimenti (colpa anche del titolo, che in originale è semplicemente Liza). Ferreri invece non gioca al massacro, non usa la forza visiva del mezzo cinematografico; si tiene anzi a distanza placando le emozioni, che appaiono assopite, pronte a risvegliarsi in qualsiasi momento. Accade con la moglie di Giorgio (Corinne Marchand), che ha di nuovo tentato il suicidio: quando lui torna a casa dopo la chiamata del figlio, lei è apatica, inerte di fronte alla visita di Liza (prova odio, gelosia, sofferenza?). Ferreri non entra nella psicologia dei suoi personaggi, nei motivi che li portano ad agire in un determinato modo: non sappiamo davvero perché Giorgio abbia scelto uno stile di vita da eremita, pur mantenendo qualche contatto con la civiltà – “eh dai, torna un po’ alla realtà”, gli dice il suo amico (Michel Piccoli); ovviamente si può ipotizzare: rifiuto dei valori della cultura a cui appartiene, della famiglia come istituzione vincolante, della massiccia industrializzazione della città (l’architettura di Parigi e di contro la natura selvaggia e un ritorno a una vita quasi primitiva). Questa incompiutezza di base, che ne genera una più profonda, che è quella di senso, è rimarcata da una narrazione frammentaria ed episodica che se già era presente in Dillinger, qui si sporge ancora più in là: in quel caso c’erano più appigli su cui sorreggere la propria analisi (l’ambiente borghese, il prologo con le maschere antigas) e gli eventi, pur nella loro asfissia, si susseguivano comunque nell’arco di una nottata (l’immagine dell’alba che entra dalla finestra); ne La cagna i riferimenti al presente passano di sfuggita (il corteo Hare Krishna), perché il tempo non esiste, immobilizzato anch’esso in un contesto straniante quale l’isola assolata. Non ci sono vie di fuga, non c’è futuro per i nostri protagonisti.
Ferreri, l’abbiamo detto, non è crudele e concede loro un’altra illusione – come lo sono state il cane per Giorgio o questi per Liza: piazza sull’isola un aereo malridotto del periodo della guerra. Alla fine i due salgono a bordo decisi a partire per chissà dove (un’altra fuga dalla realtà, ma quale? viene a questo punto da chiedersi); il velivolo, per l’occasione risistemato e verniciato di rosa, inizia la sua discesa lungo la pista, le eliche sono ferme, i loro sguardi proiettati verso un altrove indefinito; e poi un meraviglioso fermo immagine che lascia a noi, interlocutori privilegiati, decidere il loro destino”.
(Marco Bolsi, Sentieri Selvaggi, 29 Novembre 2018)
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