Ken Loach riceve il premio della giuria del Festival di Cannes edizione 2012 per il lungometraggio La parte degli angeli (The Angels’ Share), in cui, tornando ad ambientare una vicenda a Glasgow, grazie alla scrittura dello storico collaboratore Paul Laverty realizza una commedia che si pone in continuità con le descrizioni delle peripezie dei disoccupati e dei precari del suo cinema degli anni Novanta (Piovono pietre, Riff-Raff), nella consapevolezza del crescente disagio sociale sottolineato da un’affermazione dello stesso regista: “nel 2011 il numero di giovani disoccupati in Gran Bretagna è salito per la prima volta a più di un milione. Con Laverty volevamo raccontare una storia che riguardasse questa generazione di giovani, molti dei quali hanno davanti un futuro vuoto. Sanno che non troveranno un lavoro sicuro e permanente. Come reagiscono? Come si vedono?”. Nel descrivere le mutazioni dello scenario socio-economico con uno sguardo empatico rivolto a chi ne sperimenta sulla sua pelle le contraddizioni, Loach si mette dalla parte dei “suoi angeli”, cioè gli sbandati come Robbie (Paul Brannigan), che sta scontando trecento ore di servizi sociali per aver picchiato un ragazzo.
Con lui e il suo gruppo di pregiudicati, sovente trascinati in prigione per futili motivi, c’è Harry (John Henshaw), un tutor che li stimola a cambiare vita. Robbie sembra averne tutte le intenzioni: è diventato padre da poco e vuole occuparsi del bambino e della compagna Leonie (Siobhan Reilly). Durante la visita a una distilleria di Whiskey organizzata da Harry, Robbie si scopre un provetto degustatore, entra in contatto con un esperto e scorge la possibilità di riscattarsi. Come molti nella sua condizione, Robbie sogna l’occasione per dimostrare di non essere un fallito e di poter cambiare. Intravede nel lavoro di assaggiatore l’opportunità per reagire alla società e a coloro che gli dicono che ormai lui non potrà più cambiare. Se in Loach possono apparire come “angeli” gli abituali personaggi animati da passione e non corrotti dal cinismo offerto in gran dose dalle istituzioni, nel film “the angels’ share” è propriamente la parte di liquore che evapora dalle botti di quercia durante l’invecchiamento, e leggenda vuole che essa possa arrivare su fino agli angeli. Questa evaporazione ritorna lieve sui personaggi di Loach, con Robbie pronto ad appassionarsi e a coinvolgere sempre di più i compagni dei servizi sociali nelle degustazioni. Robbie fiuta la grande occasione quando scopre che sarà messa all’asta una botte di whiskey dall’enorme quotazione, e decide di organizzare un colpo per rubare il liquore assieme a tre compagni del gruppo di recupero: in cambio di molti soldi e di un lavoro, potranno rivenderlo a un collezionista danaroso.
Loach, ancora una volta, sorprende per la freschezza e la sensazione di autenticità offerti dallo sguardo empatico, schiettezza rivolta agli appartenenti a un gruppo che si “auto-aiuta” mettendosi (almeno un po’) nei guai: i disadattati coinvolti nella commedia umana sono fratelli diretti dei precari e dei disoccupati che conosciamo nel cinema del regista, e la prospettiva umanitaria si armonizza in un racconto che libera il sorriso e la risata, nel tentativo davvero compiuto di evitare la retorica per raccontare una condizione spietata. Le differenze sociali saltano presto allo sguardo dello spettatore: tra gli appartenenti al gruppo di recupero e i facoltosi cerimonieri delle degustazioni c’è una siderale lontananza di prospettive socio-economiche che vengono “accorciate” dal sogno di un riscatto dai risvolti oltremodo rocamboleschi. Ancora una volta impegnato nel racconto di uno spaccato della realtà britannica contemporanea, Loach persegue la sua indagine sulla precarietà nella consapevolezza che le condizioni lavorative fallimentari e il dissesto degli ammortizzatori sociali accrescono la povertà, destabilizzando la psiche e gli equilibri. Loach ne La parte degli angeli ritrova aspetti di disagio sociale collocandoli nei ceti e nelle aree geografiche più disagiate; tuttavia, parte da un’attendibile fotografia del reale per raccontare, a modo suo, una favola. In essa si fa accenno alla trasformazione dei sistemi di giustizia, che nei Paesi occidentali si traduce nell’accoglimento degli istituti della mediazione penale: si tratta della moderna giustizia riparativa che permette di inserirsi nel concreto dialogo sociale tentando nuove vie per sollevare le strade della legalità, e ne abbiamo un esempio con l’incontro che nel film vede Robbie coinvolto insieme alla vittima del pestaggio, allorquando i genitori della parte lesa scaricano su di lui il loro disagio, mentre il protagonista, che non riesce a dare risposte al loro dolore, sente che per la sua compagna Leonie è arrivato il momento di un vero cambiamento. La svolta quindi arriverà, ma recando aspetti paradossali. Infatti, Loach non nega che i tentativi della giustizia riparativa di ricomporre un reato possano condurre a mediare, a risanare una ferita aperta nella società. Tuttavia il tentativo di Robbie di trovare un lavoro onesto passerà ancora una volta per vie pericolosamente disoneste, e nella sua favola Loach suggerisce di non chiudere troppo gli occhi sulla vera realtà delle condizioni sociali. Con tutto questo, La parte degli angeli è un film sentito e ironicamente disincantato sul dramma della disoccupazione giovanile, un lungometraggio che vede nei capovolgimenti di prospettiva (incoraggiati, questa volta, anche dai vapori e dal gusto offerti da un ottimo liquore), qualcosa in cui credere, così come Robbie si è reso conto delle conseguenze che il suo reato ha determinato, e trova un lavoro che gli apre delle prospettive e per questo tenta di farla diventare un un’occupazione onesta (con Loach divertito nel raccontare come il passaggio verso un lavoro onesto avvenga, per un’ultima volta, attraverso vie non certo ortodosse, le sole che Robbie intravede per uscire dalla sua condizione nonché fatalmente coincidenti con la circostanza finale di avere un cittadino onesto in più e un criminale di meno). Senza mai essere stucchevole, l’attenzione per questi precari diviene in Loach fotografia rivolta all’energia che si traduce in voglia di riscatto, e se Loach aveva già raccontato aspetti drammatici della disoccupazione giovanile sino al finale tragico di Sweet Sixten (2002), La parte degli angeli appartiene invece al Loach più lieve e divertente. Un film che riconosce come la vita di questi giovani, in grado di assaggiare momenti di solidarietà nell’esperienza del gruppo, possa sperimentare anche episodi e momenti divertenti. Perché a Loach questa volta interessa il racconto di come queste vite possano andare incontro a una seconda possibilità. E quella che si sviluppa come una favola realista prende avvio da un metodo collaudato, con l’abituale alchimia del team: Laverty cesella una scrittura contemporanea attendibile, mentre la scelta dell’ottimo Paul Brannigan, un attore non professionista, si armonizza con la ricerca di un linguaggio diretto e partecipante, che nella sua veridicità coglie anche (nell’edizione originale) lo slang dei giovani di Glasgow.
l punto di vista di Loach è quello di un umanista socialista, che nel cinema riflette il valore di testimonianza, nonostante le mode e i consumi culturali siano proiettati altrove. Il suo film offre uno spaccato concreto, e fotografa ancora una volta le esigenze di una classe lavoratrice che oltre al bisogno di sicurezza e stabilità per i propri cari, chiede una casa, una possibilità per sfuggire al degrado. Quindi, nella scoperta del talento di Robbie quale finissimo assaggiatore dei whiskey più ricercati, ovverosia in quella via di riscatto che significherà per il protagonista uscire dalla gabbia dell’emarginazione, c’è il ritrovamento di un sentimento di libertà, di una speranza che per Billy era il falchetto Kes nell’omonimo film del 1969, e in Robbie e Harry è la possibilità di concedersi il piacere di qualche sorso di whiskey. Ma in questo suo spassoso film, Ken Loach, il quale è stato introdotto alla cultura del whiskey grazie al cognato Angus McConnell (abituale frequentatore di celebri cantine scozzesi), decisamente se la ride sotto i baffi, offrendo, per così dire, da bere, ai suoi amati personaggi, che proprio quel whisky sono poi costretti a rubarlo, non possedendo i mezzi economici che invece straripano dalle tasche di quel ceto snob che spende cifre da capogiro per deliziarsi il palato. Loach vuole per Robbie la possibilità di una svolta vera, di diventare una persona nuova, e il film fa vivere con grande freschezza la strada perigliosa ma divertita per questo nuovo cambio di rotta, reso comunque possibile grazie agli “angeli” attorno a Robbie. Tra questi, l’educatore Harry, e i colleghi che come Robbie si ritrovano a svolgere lavori di pubblica utilità. Nella fiducia del sentimento che cambiando sarà possibile avvicinare a sé chi, come i genitori della sua compagna Leonie, comprensibilmente lo tengono a debita distanza. Per Loach e Laverty, la favola qualche volta è possibile, ed è un altro modo per trasmettere una visione del presente che conserva immutata l’attenzione per le esigenze della classe lavoratrice.
Ken Loach riceve il premio della giuria del Festival di Cannes edizione 2012 per il lungometraggio La parte degli angeli (The Angels’ Share), in cui, tornando ad ambientare una vicenda a Glasgow, grazie alla scrittura dello storico collaboratore Paul Laverty realizza una commedia che si pone in continuità con le descrizioni delle peripezie dei disoccupati e dei precari del suo cinema degli anni Novanta (Piovono pietre, Riff-Raff), nella consapevolezza del crescente disagio sociale sottolineato da un’affermazione dello stesso regista: “nel 2011 il numero di giovani disoccupati in Gran Bretagna è salito per la prima volta a più di un milione. Con Laverty volevamo raccontare una storia che riguardasse questa generazione di giovani, molti dei quali hanno davanti un futuro vuoto. Sanno che non troveranno un lavoro sicuro e permanente. Come reagiscono? Come si vedono?”. Nel descrivere le mutazioni dello scenario socio-economico con uno sguardo empatico rivolto a chi ne sperimenta sulla sua pelle le contraddizioni, Loach si mette dalla parte dei “suoi angeli”, cioè gli sbandati come Robbie (Paul Brannigan), che sta scontando trecento ore di servizi sociali per aver picchiato un ragazzo. Con lui e il suo gruppo di pregiudicati, sovente trascinati in prigione per futili motivi, c’è Harry (John Henshaw), un tutor che li stimola a cambiare vita. Robbie sembra averne tutte le intenzioni: è diventato padre da poco e vuole occuparsi del bambino e della compagna Leonie (Siobhan Reilly). Durante la visita a una distilleria di Whiskey organizzata da Harry, Robbie si scopre un provetto degustatore, entra in contatto con un esperto e scorge la possibilità di riscattarsi. Come molti nella sua condizione, Robbie sogna l’occasione per dimostrare di non essere un fallito e di poter cambiare. Intravede nel lavoro di assaggiatore l’opportunità per reagire alla società e a coloro che gli dicono che ormai lui non potrà più cambiare. Se in Loach possono apparire come “angeli” gli abituali personaggi animati da passione e non corrotti dal cinismo offerto in gran dose dalle istituzioni, nel film “the angels’ share” è propriamente la parte di liquore che evapora dalle botti di quercia durante l’invecchiamento, e leggenda vuole che essa possa arrivare su fino agli angeli. Questa evaporazione ritorna lieve sui personaggi di Loach, con Robbie pronto ad appassionarsi e a coinvolgere sempre di più i compagni dei servizi sociali nelle degustazioni. Robbie fiuta la grande occasione quando scopre che sarà messa all’asta una botte di whiskey dall’enorme quotazione, e decide di organizzare un colpo per rubare il liquore assieme a tre compagni del gruppo di recupero: in cambio di molti soldi e di un lavoro, potranno rivenderlo a un collezionista danaroso.
Loach, ancora una volta, sorprende per la freschezza e la sensazione di autenticità offerti dallo sguardo empatico, schiettezza rivolta agli appartenenti a un gruppo che si “auto-aiuta” mettendosi (almeno un po’) nei guai: i disadattati coinvolti nella commedia umana sono fratelli diretti dei precari e dei disoccupati che conosciamo nel cinema del regista, e la prospettiva umanitaria si armonizza in un racconto che libera il sorriso e la risata, nel tentativo davvero compiuto di evitare la retorica per raccontare una condizione spietata. Le differenze sociali saltano presto allo sguardo dello spettatore: tra gli appartenenti al gruppo di recupero e i facoltosi cerimonieri delle degustazioni c’è una siderale lontananza di prospettive socio-economiche che vengono “accorciate” dal sogno di un riscatto dai risvolti oltremodo rocamboleschi. Ancora una volta impegnato nel racconto di uno spaccato della realtà britannica contemporanea, Loach persegue la sua indagine sulla precarietà nella consapevolezza che le condizioni lavorative fallimentari e il dissesto degli ammortizzatori sociali accrescono la povertà, destabilizzando la psiche e gli equilibri. Loach ne La parte degli angeli ritrova aspetti di disagio sociale collocandoli nei ceti e nelle aree geografiche più disagiate; tuttavia, parte da un’attendibile fotografia del reale per raccontare, a modo suo, una favola. In essa si fa accenno alla trasformazione dei sistemi di giustizia, che nei Paesi occidentali si traduce nell’accoglimento degli istituti della mediazione penale: si tratta della moderna giustizia riparativa che permette di inserirsi nel concreto dialogo sociale tentando nuove vie per sollevare le strade della legalità, e ne abbiamo un esempio con l’incontro che nel film vede Robbie coinvolto insieme alla vittima del pestaggio, allorquando i genitori della parte lesa scaricano su di lui il loro disagio, mentre il protagonista, che non riesce a dare risposte al loro dolore, sente che per la sua compagna Leonie è arrivato il momento di un vero cambiamento. La svolta quindi arriverà, ma recando aspetti paradossali. Infatti, Loach non nega che i tentativi della giustizia riparativa di ricomporre un reato possano condurre a mediare, a risanare una ferita aperta nella società. Tuttavia il tentativo di Robbie di trovare un lavoro onesto passerà ancora una volta per vie pericolosamente disoneste, e nella sua favola Loach suggerisce di non chiudere troppo gli occhi sulla vera realtà delle condizioni sociali. Con tutto questo, La parte degli angeli è un film sentito e ironicamente disincantato sul dramma della disoccupazione giovanile, un lungometraggio che vede nei capovolgimenti di prospettiva (incoraggiati, questa volta, anche dai vapori e dal gusto offerti da un ottimo liquore), qualcosa in cui credere, così come Robbie si è reso conto delle conseguenze che il suo reato ha determinato, e trova un lavoro che gli apre delle prospettive e per questo tenta di farla diventare un un’occupazione onesta (con Loach divertito nel raccontare come il passaggio verso un lavoro onesto avvenga, per un’ultima volta, attraverso vie non certo ortodosse, le sole che Robbie intravede per uscire dalla sua condizione nonché fatalmente coincidenti con la circostanza finale di avere un cittadino onesto in più e un criminale di meno). Senza mai essere stucchevole, l’attenzione per questi precari diviene in Loach fotografia rivolta all’energia che si traduce in voglia di riscatto, e se Loach aveva già raccontato aspetti drammatici della disoccupazione giovanile sino al finale tragico di Sweet Sixten (2002), La parte degli angeli appartiene invece al Loach più lieve e divertente. Un film che riconosce come la vita di questi giovani, in grado di assaggiare momenti di solidarietà nell’esperienza del gruppo, possa sperimentare anche episodi e momenti divertenti. Perché a Loach questa volta interessa il racconto di come queste vite possano andare incontro a una seconda possibilità. E quella che si sviluppa come una favola realista prende avvio da un metodo collaudato, con l’abituale alchimia del team: Laverty cesella una scrittura contemporanea attendibile, mentre la scelta dell’ottimo Paul Brannigan, un attore non professionista, si armonizza con la ricerca di un linguaggio diretto e partecipante, che nella sua veridicità coglie anche (nell’edizione originale) lo slang dei giovani di Glasgow. Il punto di vista di Loach è quello di un umanista socialista, che nel cinema riflette il valore di testimonianza, nonostante le mode e i consumi culturali siano proiettati altrove. Il suo film offre uno spaccato concreto, e fotografa ancora una volta le esigenze di una classe lavoratrice che oltre al bisogno di sicurezza e stabilità per i propri cari, chiede una casa, una possibilità per sfuggire al degrado. Quindi, nella scoperta del talento di Robbie quale finissimo assaggiatore dei whiskey più ricercati, ovverosia in quella via di riscatto che significherà per il protagonista uscire dalla gabbia dell’emarginazione, c’è il ritrovamento di un sentimento di libertà, di una speranza che per Billy era il falchetto Kes nell’omonimo film del 1969, e in Robbie e Harry è la possibilità di concedersi il piacere di qualche sorso di whiskey. Ma in questo suo spassoso film, Ken Loach, il quale è stato introdotto alla cultura del whiskey grazie al cognato Angus McConnell (abituale frequentatore di celebri cantine scozzesi), decisamente se la ride sotto i baffi, offrendo, per così dire, da bere, ai suoi amati personaggi, che proprio quel whisky sono poi costretti a rubarlo, non possedendo i mezzi economici che invece straripano dalle tasche di quel ceto snob che spende cifre da capogiro per deliziarsi il palato. Loach vuole per Robbie la possibilità di una svolta vera, di diventare una persona nuova, e il film fa vivere con grande freschezza la strada perigliosa ma divertita per questo nuovo cambio di rotta, reso comunque possibile grazie agli “angeli” attorno a Robbie. Tra questi, l’educatore Harry, e i colleghi che come Robbie si ritrovano a svolgere lavori di pubblica utilità. Nella fiducia del sentimento che cambiando sarà possibile avvicinare a sé chi, come i genitori della sua compagna Leonie, comprensibilmente lo tengono a debita distanza. Per Loach e Laverty, la favola qualche volta è possibile, ed è un altro modo per trasmettere una visione del presente che conserva immutata l’attenzione per le esigenze della classe lavoratrice.
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