Pubblichiamo il primo posto del Premio Adelio Ferrero 2023 nella sezione recensioni, assegnato a Benedetta Raimondi di Milano.
La dimensione corporea come trama dell’esperienza del cinema: Crimes of the Future (id., 2022) di David Cronenberg
di Benedetta Sofia Raimondi
Il cinema come esperienza in primo luogo tattile e corporea più che visiva: è questa la riflessione che icasticamente ci consegna David Cronenberg con il suo sintomatico quanto indispensabile Crimes of the Future. Un film disturbante e magnetico, che tocca letteralmente quella che Vivian Sobchak definirebbe la nostra sensibilità sensuale attraverso una poetica interamente consegnata alla visione violenta del corpo sullo schermo.
In un futuro imprecisato la specie umana affronta una serie di mutazioni genetiche che determinano come conseguenza più radicale l’incapacità di provare dolore fisico. La chirurgia diventa quindi arte, spettacolo, ma anche desiderio di un godimento che rimane comunque un’irraggiungibile chimera: l’assuefazione al dolore comporta una pari impossibilità di sperimentare il piacere. Eppure la dimensione fisiologica è più che mai sessualizzata: il corpo rappresenta una vera e propria ossessione, ed è su questo che si fonda il rapporto degli artisti Saul Tenser e Caprice, le cui acclamate esibizioni prevedono l’asportazione chirurgica dei nuovi organi prodotti dal corpo mutante di Tenser. Esibizioni in cui Caprice penetra con il bisturi la carne del compagno, realizzando operazioni equiparabili ad atti sessuali consumati pubblicamente su un tavolo chirurgico anatomico in forma di tetro esoscheletro. A ben vedere tutto, in Crimes of the Future, è anatomico, incorporato, a partire dalla sedia biomeccanica di tessuto connettivo che assiste Tenser nella deglutizione ostacolata dal suo corpo in mutazione, che se da un lato ripropone l’ossessione fisiologizzante del cinema di Cronenberg, dall’altro ne porta a compimento la frantumazione del confine che separa naturale e sintetico attraverso l’inevitabilità dell’unione corpo/macchina senza cui questa umanità in evoluzione non riesce a vivere.
Una dimensione osmotica postumana ambigua, che consegna il significato ultimo della visione al carattere ottico-tattile proprio dell’esperienza cinematografica, esplicitato da tutte quelle immagini di spettatori eccitati alla visione, dal vivo o dagli schermi, delle operazioni/performance. Un aspetto reso particolarmente evidente dall’estrema matericità delle mutazioni orrorifiche che da sempre caratterizzano il cinema di Cronenberg, la cui ostentata artigianalità rilancia questa riflessione sul rapporto corpo/sguardo acuita da un sound design che sottolinea senza filtri i suoni del corpo, svelando la portata fisico-materiale dell’immagine che la poetica del regista sempre tematizza. E tuttavia qui Cronenberg si spinge oltre, e risulta
in questo senso più scomodo e disturbante, perché nonostante riproponga in maniera potenziata l’intreccio di carne, sesso e macchina di Crash e l’associazione delle torture di Videodrome all’eccitazione sessuale, Crimes of the Future mette in crisi la nostra intera sensorialità: il dolore fisico infatti, seppur associato al piacere, nei film precedenti era comunque presente, mentre qui scompare. L’umanità desensibilizzata rende problematico il rapporto che intercorre tra la nostra esperienza corporea e quella dei personaggi sullo schermo, i cui sguardi di fronte alla lacerazione dell’integrità del corpo esprimono un godimento che ci disorienta e disturba: ed è proprio questo l’aspetto che rende Crimes of the Future un film profondamente necessario in un’epoca in cui il rapporto con l’immagine è quotidiano, e dunque causa di un’assuefazione che ci illude di essere padroni dello sguardo e delle sue implicazioni più profonde.
Ed è forse per questa sua scomodità, per il modo in cui chiama in causa con violenza la nostra sensorialità annullando la distanza che intercorre tra lo spettatore e lo schermo, che Crimes of the Future è passato al grande pubblico quasi inosservato, come in sordina; mentre tuttavia questa messa in forma sovversiva del corpo sullo schermo si afferma lapidariamente come espressione definitiva di quella dimensione incarnata da sempre propria dell’esperienza cinematografica.
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