Dopo l’Oscar quale miglior attore protagonista per Scient of a woman, Al Pacino ritorna a collaborare con il regista Brian De Palma a dieci anni da Scarface. Il nuovo film Carlito’s Way (id.), che esce in Italia il 22 dicembre del 1993, è scritto da David Koepp e prodotto dalla Universal Pictures. Snobbato dall’Academy Awards, sottovalutato alla sua uscita, il film è uno dei migliori esiti del suo regista e dell’attore che lo interpreta. Per De Palma, l’occasione per una riflessione intensa sul cinema noir, riletto attraverso i temi prediletti da Pacino. Per l’attore, il film è una tappa sentita e determinante nella sua seconda giovinezza d’interprete.
A distanza di trent’anni, Carlito’s Way rimane un’energica e coinvolgente parabola, che non dissimula le sue ispirazioni: la figura misteriosa e arcana del bogey man, il romanticismo dei perdenti, l’ineluttabilità della sconfitta esistenziale, l’iperrealismo cinematografico rielaborato nella scorribanda visionaria di un cineasta che porta il suo virtuosismo al servizio di una riflessione umanistica. De Palma lavora sul tempo, ossessione sua e del personaggio, realizzando un racconto claustrofobico e autoriflessivo. Il film reca il sapore “urgentemente inattuale” di una tragedia noir, e compone il respiro di una full immersion dentro una temperatura emotiva rovente, vissuta con grande trepidazione da un personaggio che intende rivivere una seconda chance (e che reca tutto il carisma di un Pacino trionfalmente ritrovato).
Carlito Britante è un ex boss dell’eroina, una vera e propria leggenda del suo ambiente. Attraverso la collaborazione dell’avvocato eroinomane David Kleinfeld/Sean Penn, riesce a evitare dopo cinque anni di prigione la pena inizialmente prevista di trenta e torna in liberà con la promessa fatta a se stesso di tenersi fuori dal giro; intende recuperare un cospicuo gruzzolo attraverso un lavoro pulito per poi fuggire sull’isola “Paradiso” con l’intento di aprire un’onesta attività di autonoleggio. Ma le cose non vanno esattamente come previsto: da ogni parte i vecchi compagni tentano di incastrarlo, l’avvocato che Carlito considera un amico fraterno si dimostra invece il peggiore dei vermi e lo “vende” all’FBI; quindi Carlito ritrova Gail (Penelope Ann Miller), vecchia fiamma che egli aveva lasciato prima della prigione e che oggi gli rimprovera di crollare a causa delle stesse debolezze di sempre: buoni propositi ma incapacità di tagliare davvero i ponti con il passato. E purtroppo il suo senso di lealtà, cioè la mal riposta riconoscenza nei riguardi dell’ambiguo avvocato Kleinfeld, darà avvio a una china irreversibile.
Dopo il gangster-movie di Scarface, Carlito’s Way continua l’esperienza di De Palma tra i generi, con il noir quale ambito in cui rendere percepibile la fobia depalmiana per gli spazi chiusi. Ne scaturisce un film movimentato dalle continue corse, fughe, inseguimenti cui è costretto Carlito Brigante, protagonista eschileo di un clima da ultimi giorni.
Carlito’s Way brilla della sua aura di film “definitivo”, ultima rappresentazione di un genere codificato che rivive attraverso la riflessione attuata principalmente sul personaggio.
Il protagonista, secondo De Palma, non poteva essere interpretato da altri che da Pacino. In questa prospettiva, il film appartiene, come già Scarface, a quella categoria di lavori che De Palma ritiene adattati in primo luogo allo statuto del personaggio anziché alle strutture metanarrative del racconto. Ma Carlito’s Way è il film che meglio esprime la sintesi tra le due correnti depalmiane, quella vivificata da un intenso lavoro con l’attore e quella scopertamente “decostruzionista”.
Dopo l’intesa di Scarface, Pacino e De Palma decidono di lavorare ancora assieme senza però accontentarsi di riprodurre l’impronta del loro film precedente. De Palma può trasgredire le regole dello star-system disegnando con Pacino un personaggio tragico, invecchiato, sofferto. Rispetto al Tony Montana di Scarface, Carlito si mostra scopertamente inadatto al ruolo che tutti vorrebbero ritornasse a ricoprire. La sottile vena di malinconia che scorre lungo il film è alimentata dalla voce over di Carlito che sussurra il suo sgomento dinanzi alla nuova realtà sociale, mostrando dolorosa riluttanza nell’entrare in una parte che fino a qualche anno prima lo aveva contraddistinto come un autentico protagonista di quell’ambiente. Il personaggio vive evidentemente un senso di non-appartenenza ad un contesto, quello malavitoso senza scrupoli, sentito come dominio esclusivo del passato, e attraverso la figura tragica di Carlito si rende possibile quella reinterpretazione di un genere, il noir, che nel film di De Palma si attua come estrema condensazione di urgenze attorno alla figura del protagonista, oggi testimone suo malgrado di un ruolo sempre più intollerabile (il gangster) e realmente padre di un bambino che non vedrà mai, destinato a soccombere sotto il fato secondo il destino comune sia al noir di Carlito’s Way sia al gangster-movie di Scarface.
La dimensione del tempo è una variabile complessa che esprime il grado di tensione psicologica degli ambienti attraversati da Carlito. In questa America anacronistica e desolata, dominata da luci stroboscopiche e musica disco d’epoca (sono anche gli ultimi giorni della “disco”, perché la “dance” sta per sfondare con il suo carico di asetticità), il tempo sfugge tra le mani. Il caos dei locali notturni in cui Carlito ripara momentaneamente riflette il disordine della sua vita interiore, stretta tra nuovi “ideali” e la pretesa di non perdere il controllo sulle molte circostanze attorno a sé.
I clamorosi tour de force di De Palma, le carrellate e i movimenti della steadicam dell’operatore Larry McCockey per stare al passo con Carlito, divengono perlustrazione di un universo esistenziale in continuo sdrucciolo sulla dimensione slabbrata del tempo, vissuto in modo ansiogeno. Riuscire a dominare il tempo significa, per Carlito, frenare il caos dei tanti elementi in gioco, e in questa pretesa è da leggersi uno spunto critico di De Palma rivolto innanzitutto all’alienazione dei nuovi anni (anche il crimine è diventato niente di più che una “organizzazione d’affari”) che produce lo smarrimento dell’individuo favorendo la sua non consapevolezza.
Tutto il film appare energicamente compatto, ma sua complessa struttura, prediligendo movimento, panoramiche, zoom, sbalzi temporali (Carlito’s Way è riassumibile in un lungo e intenso flashback del protagonista sul letto di morte), favorisce una dimensione di “scrigno luccicante”, testo traslucido di epifanie e desideri irrealizzati (il sogno reale/virtuale della ballerina sulla spiaggia dell’isola “Paradiso” che unisce l’artificialità di un’immagine “pubblicitaria” all’evanescenza di un miraggio idealizzato).
Pacino, cinquantenne, con la barba, appare serio e duro come uno stoico veterano. Il fascino del suo personaggio proviene dal mélange di fragilità e superiore coscienza che contraddistingue un’indole in cui riverberano i temi cari al Pacino transfuga di un mondo di ignavi (come in Serpico), ma nel film e nel personaggio si ritrovano anche i riflessi depalmiani dell’amicizia tradita, i temi della colpa e del dovere, il desiderio di Carlito di affrancarsi dall’ambiente maledetto degli stupefacenti secondo una tensione verso la libertà che è comune alla visione dei due uomini di cinema.
Nonostante i botteghini americani non abbiamo premiato a suo tempo Carlito’s Way, a trent’anni dalla sua uscita, il film rimane una delle migliori pagine del cinema americano di quel periodo, così pervaso dalla corsa per scongiurare la morte e dal romanticismo dei perdenti che diverranno anche tra le tessere del successivo Heat – La sfida (Heat, 1995), altro apice della “seconda giovinezza” di Pacino.
Lascia un commento