La morte di Aldo Moro è uno degli eventi più tragici della seconda metà del secolo scorso, che il cinema, i libri di storia, la televisione e il teatro hanno affrontato con l’imperativo comune di ricostruirne le dinamiche.
Ben altra intenzione quella di Marco Bellocchio, che per il suo Buongiorno, notte (2003) sceglie di rifarsi all’opera autobiografica “Il prigioniero” di Anna Laura Braghetti per dedicarsi a un punto di vista meno consueto e decisamente più rivelativo sul piano psicologico, che porta a cogliere il dramma intimo dentro il dramma storico: il vissuto psichico della brigatista Chiara (Maya Sansa), combattente che si dedica a una rivoluzione in cui crede e, assieme ad altri tre terroristi, rinchiude Moro, appena rapito durante l’attentato di via Fani, nell’appartamento di via Montalcini a lei intestato. Nonostante l’aderenza delle fonti alla realtà precisa dei fatti storici – i programmi originali della Rai, quelli della radio – il film di Bellocchio non vuole certificare una realtà sotto la forma d’inchiesta, ma prodursi in un resoconto che i toni dell’apertura poetica sottraggono all’obbligo di seguire attraverso un’inappuntabile filologia storica.
Il suo film non supplisce alla necessità di far ragionare sulla dinamica precisa dell’agguato, e pur partendo dalla consapevolezza che il rapimento e la strage di via Fani abbiano generato innumerevoli ricostruzioni tra di loro molto differenti, Buongiorno, notte distilla il suo racconto investigando l’ombra e l’oscurità, spingendo lo spettatore a immergersi nei vuoti che sono creati dalla narrazione per muovere in lui una comprensione attiva; ma anche per affrontare con la visione di una persona “interna” ai fatti, il connubio che si palesa come sempre più insostenibile tra l’utopia e la violenza, destinato a sgretolare le certezze di Chiara che vive il dubbio morale. Bellocchio filma con Buongiorno, notte una meditazione visionaria e dolente, che si fa lezione di stile nell’intreccio tra le componenti oniriche del quotidiano – il cui fascino il cineasta continua a inseguire sin dalla collaborazione con Massimo Fagioli avviata in quel fatidico 1978 – e la rappresentazione dei luoghi e dei fatti presentati senza che ci sia bisogno di informare e dettagliare minutamente per avviare alla comprensione. Lo stile di narrazione che Bellocchio sceglie si rivolge a Ejzenštejn, sin da quei primi minuti del film in cui il silenzio si cala sull’identità dei personaggi e sull’appartamento preso in affitto, teatro di un’invisibilità collettiva.
Il racconto infatti non esordisce come ci si aspetterebbe da un film “su Moro” seminando dettagli, mette anzi lo spettatore nella condizione di un’attesa e un ascolto singolarmente sospinti dalla tensione che si sviluppa modulando differenti registri realistici, visionari ed ellittici, condotti in un unicum in cui si fondono le immagini di repertorio e gli attori che interpretano personaggi presi dalla realtà, nonché le azioni alle precise attenzioni sull’animo umano. Con il volto di Roberto Herlitzka, Aldo Moro appare l’uomo la cui reclusione alimenta gli scrupoli di coscienza di Chiara, mentre Mariano (Luigi Lo Cascio) è determinato e non conosce ripensamenti. Lo sguardo di Bellocchio è poetico e potente. Nell’ispirarsi ai versi di un celebre componimento di Emily Dickinson, il titolo è un ossimoro che annuncia la compresenza nel film di una natura doppia: da una parte meditazione poetica, dall’altra film storico.
La struttura ossimorica compone una sintesi di coraggiosa stilizzazione, che libera dall’obbligo di proporre nuove letture inedite di una pagina di cronaca italiana, per affiancare il sogno e proporsi come sguardo intimo e dolente che si appoggia a sonorità in grado di sostenere le pagine del suo potenziale espressivo grazie alle musiche di Franz Schubert, Giuseppe Verdi, Jacques Offenbach e i Pink Floyd. Gli anni di piombo secondo Bellocchio portano l’autore a filtrare il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro attraverso l’esperienza di Chiara. Proprio al suo sguardo è affidato il sogno ad occhi aperti che prende spazio come presupposto di un altro punto di vista, allorché proprio il sogno diventa un territorio di fuga e un rifugio. L’attacco inaspettato alle BR viene paragonato a quello dei fascisti durante la Resistenza, con l’uso del suono che assume predominanza rispetto al piano visivo, come nel momento in cui la sigla iniziale delle trasmissioni Rai viene ad accordarsi con i gesti di Chiara intenta a chiudere le tende affinché i vicini non osservino quello che succede tra le pareti dell’appartamento. Il rombo di un elicottero, segnala che l’obiettivo è stato perseguito: il rapimento e la sparatoria hanno avuto luogo.
Ad essi Bellocchio affiancherà quelle attenzioni per i pensieri e i sogni che filtrano la quotidianità e si accompagnano alla precisione storica coniugandone il contrasto costante in un film cui la dimensione luminosa e l’oscurità sono territori assai prossimi, connaturati ad una visione che il film offre come sguardo psicologico della protagonista. Proprio grazie a lei diverse sequenze diventano rivendicazione di un reale luminosamente diverso. Il momento più intenso e toccante (ma anche il più discusso), è la passeggiata solitaria di Moro per le vie deserte di Roma, quando la prospettiva di un altro epilogo nella vicenda dello statista si manifesta come (vera) utopia di salvaguardia della vita, oltre le contingenze e le posizioni politiche da cui l’autore si libera grazie a un film profondamente attento ai dettagli e con una predilezione per i primi piani che fanno “respirare” lo sgomento che porta a ritenere moralmente non accettabile la morte di alcun individuo. Il personaggio di Chiara, il più denso di spessore psicologico del film, allude a un possibile risveglio del disappunto in grado di tramutarsi in ribellione e al contempo in consapevolezza dell’importanza della vita.
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