Rai Cinema presenta quattro interviste di Venere in Pelliccia, il nuovo film di Roman Polanski con Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric. Il film e` nei cinema.
Intervista a Roman Polanski, regista, coautore e produttore del film
In che modo ha scoperto il lavoro di David Ives, ispirato al romanzo di Sacher-Masoch?
Grazie al mio agente, Jeff Berg. L’anno scorso a Cannes, dove mi trovavo per assistere alla proiezione della versione restaurata di Tess, mi ha consegnato la sceneggiatura di Venere in Pelliccia e mi ha detto: “E’ perfetta per te!” Non avevo molto da fare e così sono salito nella mia stanza e ho iniziato a leggerla e… ho pensato: “Sì, mi piace!” Il testo era così divertente che mi sono ritrovato a ridere da solo, il che è piuttosto raro. L’ironia della pièce, che talvolta sfiora il sarcasmo, era irresistibile. Mi è piaciuto anche l’elemento femminista e ho voluto immediatamente farne un film. Per prima cosa c’era un ruolo magnifico per Emmanuelle, e da tempo parlavamo di tornare a lavorare insieme, poi un bellissimo ruolo maschile. Ho immaginato subito di ambientarlo in un teatro vuoto, forse perché ho un background teatrale. Un teatro crea un’altra dimensione, una certa atmosfera…
Dopo Carnage, di Yasmina Reza, questo è il suo secondo adattamento di un lavoro teatrale e il suo primo film in francese…
Non prendo mai in considerazione questi aspetti, è stato il soggetto che mi ha ispirato. E un’altra cosa: ci sono solo due personaggi. Fin dal mio primo film (Il coltello nell’acqua – 1962) in cui ne erano presenti solo tre, mi sono detto: “Un giorno realizzerò un film con solo due personaggi! E’ una vera sfida, ma una sfida che mi dà ispirazione, perché presenta degli ostacoli… altrimenti mi annoio. La sfida era trovarsi in un unico ambiente con due personaggi senza mai annoiare gli spettatori, senza che apparisse teatro ripreso per la televisione. Davvero interessante, soprattutto ora, perché andare al cinema significa ritrovarsi bombardati dalle immagini e dal sonoro. Realizzare i trailers è la parte più difficile! Ce ne sono alcuni che concentrano la violenza di un intero film: decine di esplosioni, decine di macchine che saltano e tra una ripresa e l’altra sempre lo stesso sonoro, come se fosse l’unico che possiedono nel loro repertorio…
Può parlarci di come ha lavorato all’adattamento con David Ives?
Per prima cosa abbiamo tagliato i dialoghi e apportato dei cambiamenti ad alcune scene. Il nostro scopo era trasformarlo realmente in un film. Nel lavoro teatrale tutto avviene in una sala per audizioni, abbastanza impersonale. Invece in Francia, in particolare nei teatri privati, dove non ci sono compagnie stabili, le audizioni si tengono spesso sul palco. Quindi il mio primo pensiero è stato di ambientare l’azione in un teatro. Trovarsi in un teatro cambia tutto, fin dall’inizio! Potersi muovere tra il palco e la platea, per non parlare dello spazio dietro le quinte, offre tantissime opportunità. Il nostro lavoro è stato molto attento ai particolari, anche se, durante le riprese, ho cambiato alcune situazioni e improvvisato dei movimenti…
Le è familiare il mondo di Sacher-Masoch?
No, niente affatto!
E’ un mondo che la attrae?
Per niente! In un certo senso lo trovo buffo. Un amico mi ha fatto vedere alcuni film pornografici giapponesi sado-maso. Folli! Al punto da essere lievemente terrorizzanti. Non avevo idea che così tanta gente potesse essere appassionata di questo tipo di cose. Intravedo un parallelismo con il punk e il gotico: c’è qualcosa di innaturale, fatto per impressionare gli altri o per seguire una moda. Penso che alcuni lo facciano per sentirsi parte di un gruppo, per essere come gli altri punk o gotici, piuttosto che per il piacere di bucarsi le guance o indossare abiti scomodi.
Nel sado-masochismo c’è qualcosa di non molto diverso dal teatro: diventi regista delle tue fantasie, interpreti un ruolo, diventi un’altra persona… Il film gioca con questa teatralità, un lavoro teatrale all’interno di un lavoro teatrale: dove dominazione e sottomissione, teatro e vita reale, personaggi, realtà e fantasia si incontrano, si scambiano di posto e confondono le linee di confine…
Nel film, l’attrice dice: “Nuda sulla scena? Non c’è problema. Lo farò per te senza problemi. E poi il sadomasochismo mi è familiare, lavoro in teatro!”
Pensa che i rapporti tra registi e attori siano sadomasochisti?
Certo, ma il film ironizza su questo aspetto. E’ una delle battute scritte da David Ives che mi ha fatto ridere e mi ha fatto venire voglia di adattare il suo lavoro. E’ stato divertente ed eccitante trovare un registro diverso per ogni situazione, un linguaggio diverso, un gioco diverso, soprattutto per il personaggio interpretato da Emmanuelle. Sicuramente il personaggio di Mathieu Amalric vive meno cambiamenti, ma le differenze sono più sottili…
A quale personaggio si sente più vicino?
A nessuno dei due! Anche se… il mio lavoro mi posiziona più vicino al personaggio del regista ovviamente, ma non a questo! Spero di non aver mai commesso quel tipo di errore! Se avessi adattato io stesso Sacher-Masoch e lo avessi diretto… Non credo che sarei stato intrappolato da una donna come quella. Mi piace quando il regista dice: “Ho intenzione di usare la Lyric Suite di Alban Berg per i passaggi”, e lei dice “è una splendida idea!” e lui, sorpreso, le chiede se la conosca e lei risponde “no”. Adoro questo tipo di momenti.
Quale dei punti di forza di Emmanuelle Seigner l’hanno resa particolarmente adatta a interpretare questo ruolo?
La sua fisicità, l’immagine che proietta e la sua abilità nel passare da un’emozione all’altra… pensavo che il personaggio dell’attrice sarebbe stato molto facile per lei da interpretare, ma durante le riprese mi sono reso conto che era l’altro personaggio – il personaggio del libro di Masoch, Vanda von Dunajev – che le veniva molto più facilmente, anche se non ha mai avuto problemi con nessuno dei due. Passava dall’uno all’altro con grande naturalezza e riusciva a modificare la voce, l’accento, l’atteggiamento e la fisicità – due corpi diversi – senza problemi.
Cosa dice di Mathieu Amalric?
E’ un grande attore e anche un regista, quindi capisce molte cose e tante situazioni. E’ talentuoso, intelligente e ha l’età giusta. Tutto quello che era necessario per interpretare la parte con successo! Pochi altri attori sarebbero stati capaci di fare ciò che ha fatto lui, e con altrettanta finezza…
La cosa che colpisce di più in questo film è quanto le assomiglia. Fa tornare in mente il suo personaggio in Per favore…non mordermi sul collo e The Tenant… E’ stato intenzionale?
E’ possibile che lui abbia deciso in questo senso, ma non è stata una mia decisione. All’inizio non me ne ero neppure accorto. Anche se la prima volta che ci siamo incontrati (grazie a Steven Spielberg che ci ha presentati mentre stavano girando Munich) Mathieu mi ha rivelato che spesso gli dicevano che mi assomigliava molto.
Colpisce anche quanto questo film ricordi altri suoi lavori, da Per favore…non mordermi sul collo a Luna di Fiele e The Tenant, non solo per la situazione claustrofobica, ma anche per l’atmosfera e i temi…
Neppure di questo mi ero accorto. In un film come questo, semplice, non troppo costoso e completamente sotto il controllo del regista, non ci sono vincoli, si ha piena libertà. Quindi non deve sorprendere che i “vecchi fantasmi” o i “vecchi demoni” tornino a ossessionarti… A essere sinceri non ci avevo pensato. Semplicemente mi è piaciuto il testo e ho realizzato il film come l’ho visualizzato. E’ stata una magnifica avventura per tutti quelli che sono stati sul set, una produzione davvero piacevole.
Siamo stati molto fortunati. Ogni volta che volevamo qualcosa che era difficile da ottenere riuscivamo ad averla! Tutto sembrava cospirare a favore della realizzazione del film. Il colpo di fortuna più grande è stato trovare un teatro dove costruire un set grande abbastanza per le nostre necessità… Il primo posto cui ho pensato mentre leggevo la sceneggiatura è stato il Théâtre Hébertot – non quello restaurato di recente, ma quello un po’ più lasciato andare, dove ho messo insieme Doubt (nel 2006)… Cercavamo un teatro e alla fine ci è venuto in mente il vecchio Théâtre Récamier, che era chiuso da tanto tempo, ed è uno spazio vuoto, ma con la zona della platea e i resti di un palco. Jean Rabasse, il nostro scenografo, ha ricostruito ogni cosa, dal palco, ai posti a sedere, al backstage… Alla fine del suo lavoro eravamo in un vero e proprio teatro! Dopo cinque settimane di prove siamo stati in grado di girare il film in ordine cronologico. E’ stata un’opportunità straordinaria e sarebbe stato un peccato perderla.
La messa in scena è molto rigorosa ed estremamente fluida…
Si impara sempre qualcosa nel corso degli anni!
Quante macchine da presa ha usato?
Solo una. Per me, e soprattutto per questo film, c’è solo un “miglior punto di vista”. Potrebbero essercene altri, alcuni buoni, ma solo uno è il migliore! Io giro dalla mia prospettiva, seguendo quello che vorrei vedere con la macchina da presa. Comunque, uso sempre gli attori per bloccare le scene – preferisco che le cose vengano da loro piuttosto che da me. Non puoi fissarti su qualche idea di regia e poi cercare di passarla agli attori. Sarebbe come avere un completo di ottimo taglio e poi cercare di farci entrare qualcun altro! E a un certo punto della storia è l’attrice che sceglie il suo posto sulla scena. Quando giro succede qualcosa di simile. Inizio provando con gli attori e poi mi domando come filmarli. La macchina da presa racconta la storia di quello che vedo. Per questo uso solo una macchina. E poi con questo tipo di soggetto la seconda macchina finirebbe nella prima inquadratura!
Ha lavorato ancora una volta con Pawel Edelman. Cosa cerca in un direttore della fotografia?
Deve capire esattamente cosa voglio vedere. Con Pawel, non c’è quasi bisogno di parlare; lui sa quanto voglio realizzare rapidamente il film. Posso dire la stessa cosa per Alexandre (Desplat, il compositore). Tutti e due sono diventati miei ottimi amici e colleghi eccezionali che capiscono e anticipano le mie idee e le sviluppano.
C’è molta musica in Venere in Pelliccia che si contrappone alle situazioni, aggiunge fantasia, humour, ironia e una certa leggerezza…
L’unica cosa che ho detto ad Alexandre era che volevo molta musica… Lui ha letto la sceneggiatura e ha avanzato qualche suggerimento, esattamente nello spirito che volevo io. E’ così. Semplice. Lo stesso è successo con Pawel. All’inizio del film tutto quello che volevo era l’atmosfera di un teatro cadente, girato realisticamente e da qui muoversi progressivamente verso la fantasia e l’immaginazione…
Dopo la scena della telefonata nel backstage, capiamo che il film è arrivato a un momento cruciale. La luce è diversa. Il personaggio di Emanuelle Seigner non è più lo stesso. Sembra quasi di entrare in un sogno…
Mi piace sviluppare gradualmente l’ambiguità. Anche mentre stavamo lavorando all’adattamento, con David Ives, volevamo accrescere quel senso di allontanamento dalla realtà, senza che lo spettatore se ne rendesse conto. E abbiamo continuato nello stesso spirito durante le riprese. Battute come: “E’ Venere che arriva per prendere la sua testa”, che giriamo letteralmente, ci sono per turbare lo spettatore.
La danza finale è una sorta di climax di questa progressione, di questa ambiguità…
L’idea mi è venuta abbastanza tardi. Sapevo l’atmosfera che volevo, ma non riuscivo a trovare il modo per comunicarla, come creare la sensazione che stavo cercando. E poi ho avuto l’idea di questa danza, ispirata all’antica Grecia, come la musica.
Anche il cactus sul set ricorda una colonna greca!
Sì… Tutto inizia con una versione musicale di Ombre rosse!
Con David cercavamo un titolo che fosse il più possibile lontano da Sacher-Masoch. Qualcosa che sarebbe stato sicuramente un flop e avrebbe lasciato libero il teatro per il nostro Thomas Novachek. E avevamo bisogno di un totem cui potessimo legare Thomas. Ci siamo scambiati una serie di idee e abbiamo riso molto. Un giorno ho pensato a una specie di western, e da qui è nata l’idea di un adattamento musicale del film di John Ford. Per la scena in questione, il mio primo pensiero è stato il totem. Jean (Rabasse) che ha progettato un set ispirato alla Monument Valley, mi ha suggerito varie cose, tra cui i cactus. Mi sono piaciuti subito i suoi cactus – è stata un’idea davvero divertente!
Lei ha letto Venere in Pelliccia a Cannes l’anno scorso ed è tornato esattamente un anno dopo in concorso, è raro che le cose vadano così rapidamente…
Sì, è folle. Ci sono film come questo in cui tutto funziona… Gli attori e i tecnici sono stati eccezionali ed è soprattutto grazie a loro se siamo riusciti a finire il film in così poco tempo. Ma abbiamo lavorato duro! E poi abbiamo lavorato duro al montaggio!
Se potesse conservare un’unica immagine dell’avventura di Venere in Pelliccia, quale sarebbe?
La scena dell’audizione, ovviamente!
Intervista a Mathieu Amalric
Lei è attore, regista cinefilo… Lavorare con Roman Polanski era un suo sogno?
Un sogno? Molto di più! E’ una delle persone che mi hanno fatto venire voglia di fare cinema.
Perché?
Perché potevo sentire la maestria nei suoi film, quel lato istintivo in cui l’inconscio è al lavoro, l’evidenza dell’amore che prova per tutto ciò che riguarda il film, tutti gli aspetti tecnici che comprende. E’ un vero maestro, dovreste vederlo sul set: è un fantastico attrezzista, un ottimo truccatore, etc. E’ un attore magnifico nel senso che, per me, recitare è un lavoro manuale. Sentire la sua passione per tutto questo mi ha fatto venire voglia di dedicarmi al cinema…
Si è sorpreso che l’abbia chiamata?
Sì, anche perché tutto è successo molto rapidamente. Stavo pensando ad alcuni miei progetti e la sua proposta mi ha colto di sorpresa. Fortunatamente avevo appena lavorato nel film di Despechin (Jimmy P…) che mi aveva rimesso in moto la memoria, quindi ho imparato il testo abbastanza rapidamente. Voleva iniziare a girare subito e così non abbiamo avuto il tempo per fare le prove, che per lui sono molto importanti (non bisogna dimenticare il suo background teatrale). Talvolta sul set, non giravamo ma lavoravamo sul testo. Dopo averlo imparato avevamo solo bisogno di capire cosa aveva in mente Roman. Non è stato molto difficile. Conosco tutti i suoi film a memoria e quasi non avevamo bisogno di parlare. C’è stata una comprensione immediata tra noi, quasi naturale. Anche perché VENERE comprende parecchie ossessioni “polanskiane”: situazioni claustrofobiche, dominazione – chi domina chi? chi manipola chi? – scambio di abiti, grasso e magro, humour, un certo tipo di erotismo…
E’ interessante che il film, un adattamento della pièce di David Ives, a sua volta ispirata a Sacher Masoch, sembra echeggiare il lavoro di Polanski…
Tutto, fino ai dettagli dei costumi! Quando ho indossato la giacca di velluto verde mi sembrava di essere in Per favore…non mordermi sul collo– era lo stesso verde! Emmanuelle indossa un abito che viene direttamente da TESS… Ovviamente il finale ricorda The Tenant… Ci sono molte cose di questo tipo che fanno ricordare il suo lavoro, ma lui non ne ha mai parlato…
Non ha mai parlato con lui della vostra somiglianza, che è notevole?
No, mai! Ma appena ha chiesto alla parrucchiera di darmi quel look, ho capito! L’unica volta che vi ha accennato è stato per caso, stavamo in giro per comprare i costumi, lui era lì e ha detto alla commessa: “Sto cercando una giacca per mio figlio!” Non ha avuto bisogno di dire altro! E’ così che esprime ciò che pensa, ma anche con la sua gentilezza e il suo calore – perché è una persona cordiale. E senti subito che si sta prendendo cura di te. E’ molto coinvolgente…
Le faceva piacere questa somiglianza?
Mi sono dovuto sforzare per non pensarci… Nello stesso tempo tante persone me lo ricordavano e questo mi ha aiutato a trovare il senso dell’esperienza che stavo vivendo. Come se ci fosse di mezzo il destino. Mia nonna è nata in Polonia, è un’ebrea polacca.
C’è una frase di Richter, il grande pianista, che mi piace molto perché si adatta perfettamente alla situazione: “Non devi scegliere il tuo pianoforte. E’ il destino”.
Gli echi del suo lavoro, la vostra somiglianza fisica, tutto sottolinea l’idea dell’incertezza dei confini tra realtà e immaginazione, un’idea presente nel film. Dominazione e sottomissione, attori e personaggi, realtà e fantasia si riflettono l’uno nell’altra…
Assolutamente, ma neppure di questo ha mai parlato. Lui non dirà mai: “Ho voluto dire questo”. Mai! Non vuole realizzare film didattici, sa che la vita è assurda, quindi non cerca di imporre un significato alle cose… Quando l’ho chiamato dopo aver letto la sceneggiatura, l’unica cosa che mi ha detto è stata: “E’ una bella risata, vero! Ci divertiremo molto!” Roman è una persona molto pratica. E’ come se avesse un’unica regola: ignorare le dispute intellettuali e confidare nel film. Tutte le analisi, il significato del film, il suo spessore, la psicoanalisi, riguardano gli spettatori, l’importante è non preoccuparsene, succederà, fin quando introdurrà gli elementi giusti nelle riprese. E’ una questione di ritmo, di sceneggiatura, di divertimento. E di lavoro di squadra.
Cosa intende dire?
A differenza di quello che si potrebbe pensare e anche se è diabolicamente preciso ed esigente, Roman è l’opposto di un dittatore sul set. Quello che vuole, quello che si aspetta è il lavoro di squadra, come se ogni membro fosse parte della sua mente. Quindi coglie tutto ciò che gli si offre, non ci sono gerarchie per lui…sono rimasto stupito! Si assicura che tutti gli elementi di una ripresa siano in armonia: i movimenti, i ritmi degli attori, la luce, il sonoro, il set, gli arredi di scena al posto giusto e, se tutto va bene, passiamo alla ripresa seguente. Gli piace la profondità delle riprese, quindi tutto è importante: una piccola luce sullo sfondo, il modo in cui un libro è appoggiato su un tavolo, e il ritmo. Anche dettagli minuscoli: il divano deve essere spinto da un lato, ma questo fa cadere la sedia che sta dietro. E sa che se metti un po’ di cera sotto le zampe della sedie questa scivolerà invece di cadere.
“Trovatemi una candela! Trovatemi una candela!” E’ così. Ed è la stessa cosa per i movimenti degli attori, dove metti la mano, come afferri un oggetto… Ancora una volta non riesco a trovare una parola diversa da “naturale” per definire il lavoro con lui.
Come definirebbe il regista che interpreta in Venere in Pelliccia?
Un tipo estremamente presuntuoso. Tutto quello che Roman detesta! Un tipo che sostiene di essere un regista e dice: “Gli altri registi non hanno capito niente, è meglio che diriga io stesso il mio lavoro”. Ma non ha esperienza, non sa come sono davvero gli attori e tantomeno le attrici. Sopporta una relazione borghese con la moglie, e questo dimostra la sua reticenza ad assumersi rischi.
Lei non interpreta solo il regista, ma anche il personaggio della sua pièce, l’attore che lo interpreterà, l’uomo che è sopraffatto da questa donna… E’ stato difficile trovare le sottili differenze tra tutti questi livelli?
Con Roman ed Emanuelle, ci siamo presi il tempo per lavorare al testo, lei ed io abbiamo potuto individuare quelle differenze, senza enfatizzarle troppo, quindi non è sembrato “teatro vecchia scuola”… Poi c’erano i costumi, il materiale di scena, le diverse fisicità… Roman non lavora con stile naturalistico. Forse i suoi film sono più vicini al piacere della commedia dell’arte. Ci sono le maschere: maschere che indossi e altre che togli. E’ organizzato e semplice. Ovviamente lui ti guida, è estremamente attento e all’inizio ha bisogno anche di mostrare la parte.
Le era familiare il mondo di Sacher-Masoch?
Non lo era prima, l’ho scoperto e… è stato sorprendente ! Non conoscevo i testi originali, quindi li ho letti. Ho letto anche le analisi di Deleuze. Alla fine di Venere in Pelliccia, laddove Masoch parla dei rapporti sadomasochisti – se posso definirli così, Masoch non sopporta le etichettature psicoanalitiche che gli sono state appiccicate – è fantastico. Dice che fino a quando uomini e donne non avranno un posto uguale nella società e non avranno retribuzioni uguali, ci saranno sempre rapporti di dominazione e sottomissione, il che è sorprendente, soprattutto in relazione ai tempi…
Pensa che ci sia un rapporto sado-maso tra attori e registi?
No. Non è davvero questo il modo in cui lavora Roman. Forse l’opposto.
Non in particolare per Polanski, ma in generale?
No. Certo, dipende di chi si sta parlando. Non è un’esperienza che ho vissuto. Credo che il rapporto sia piuttosto di una incredibile complicità, una folle complicità…
Quale delle doti di Emmanuelle Seigner l’ha resa particolarmente adatta al personaggio di Vanda, o ai personaggi che interpreta?
La persona che è, quello che fa, quello che è capace di fare… C’è qualcosa di inquietante in lei, l’erotismo che emana e l’intuito nel cogliere le situazioni… E’ un’attrice nel senso che gioca con questo per il personaggio, in una data situazione, per il suo partner. Siamo in una ripresa chiaramente narrativa, recitiamo, e nello stesso tempo… finisci con l’appassionarti! (ride) E’ di grande ispirazione recitare con lei. Possiede una tecnica straordinaria, ma c’è qualcosa di profondamente viscerale in lei! Non scopri mai davvero chi è Vanda. Credi che sia in un modo e poi, improvvisamente, lei diventa un’altra persona. Sta fingendo o no? Emmanuelle è molto brava nell’esprimere tutto questo. Lei parlava bene di echi e riflessi: questa attrice, che è la mia partner, è la moglie del regista che la sta riprendendo… E’ come se osservassi uno scultore o un pittore che esegue il ritratto della moglie. Veder lavorare questa coppia è stato affascinante. Lui organizza ogni cosa, perfino una piega, un tocco di rossetto, ogni movimento della testa… Forse sono stato solo i suoi occhi…
Se potesse conservare solo un’immagine di questa avventura, quale sarebbe?
Quella che mi viene subito in mente è una immagine di Roman. Poiché giravamo su un set che era realistico quanto un vero teatro, lui era spesso in platea e regolarmente saliva sul palco per darci indicazioni, metterci nel posto giusto o per mostrarci come fare. Quello che mi ha colpito è stata la sua straordinaria energia, la sua rapidità, balzava in piedi come una molla… E, ovviamente, lui che viene verso di noi dopo la ripresa, con quella luce negli occhi.
Intervista ad Alexandre Desplat, compositore
Venere in Pelliccia è il suo terzo film con Roman Polanski. Come ha lavorato con lui per questo film così pieno di dialoghi che utilizza anche molta musica?
Come al solito, ho avuto la fortuna di poter frequentare il set, anche più di Carnage. E il set era incredibilmente realistico. E’ divertente perché conoscevo il Théâtre Récamier – ero lì per le prove di “Papa doit manger”, diretto da André Engel per la Comédie Française. E quando sono andato sul set di Venere in Pelliccia, era tutto così bello, dalle porte girevoli, all’ingresso sulla scena, alle dorature.
Ho pensato che non era cambiato affatto, avevo completamente dimenticato che era uno spazio vuoto! La cosa più sorprendente con Venere in Pelliccia è che, a differenza di Carnage dove la musica che avevamo realizzato era intrusiva, fin dall’inizio Roman ha voluto che la musica fosse al centro della narrazione – come se il film fosse coperto da un velo che viene sollevato dalla musica. Quando me ne ha parlato per la prima volta non ero sicuro, ma non ha avuto difficoltà a convincermi. Il suo istinto è infallibile. E vediamo che la musica solleva quel velo che sembra avvolgere gran parte del film. Come se, improvvisamente, lo sfondo venisse spinto via per rivelare un’altra prospettiva, un’apertura infinita. A seconda dei momenti, abbiamo sviluppato una fantasticheria in un possibile passato e accentuato la particolarità del rapporto tra i due personaggi.
La musica accentua l’atmosfera del film, tra l’ironia e la serietà. Talvolta suggerisce anche altro, in contrasto con il resto, in particolare nelle prime scene, qualcosa che dà spazio all’impulso…
Vero… L’attrice e il regista intrecciano un gioco di seduzione, quindi anche la musica gioca nello stesso modo… Tutto si sviluppa dalle note di apertura, che tornano nella danza finale. Questo pezzo annuncia tutta la musica che segue. E’ lo stesso tema che noi inesorabilmente ripetiamo ed esploriamo. Roman è come molti registi, se non della Nouvelle Vague, che lavoravano al tempo della Nouvelle Vague con compositori come Georges Delerue, Maurice Jarre e altri, per i quali fin dall’inizio la musica deve indicare cosa sarà il film. La Calda Amante ne è un bellissimo esempio. Mentre la scena iniziale è molto normale, la musica è profondamente drammatica e fa capire cosa sarà il film. Qui è lo stesso: quella lunga scena iniziale sotto la pioggia che ci porta all’interno del teatro è accompagnata da una strana musica che usa un insolito 9/4. E’ un ritmo greco, che gli appassionati sapranno riconoscere e per il quale ho usato strumenti greci. Fin dall’inizio ho introdotto una buona dose di “grecità”, che è anche parte di me, perché sono per metà greco.
Perché la “grecità” in questo film in particolare?
Perché alla fine appare Afrodite! (ride) Ci sono molti livelli nei film di Roman, e lui mi ha incoraggiato a giocarci, come giocassi con delle matrioske: ce n’è una, poi un’altra all’interno, un’altra e un’altra ancora… E’ molto eccitante. Ma ovviamente è necessario qualcuno con il talento e la follia di Roman – e questo è vero per tutti quelli che lavorano con lui – per poterti divertire a scavare sempre più a fondo e trovare l’oro. E’ grazie al suo istinto e alla sua energia se ho raggiunto dei risultati.
E’ stato facile comporre la musica d’apertura?
Roman emana una tale energia e determinazione che quando lavoro con lui le cose vanno molto, molto velocemente. E’ stato così per L’uomo nell’ombra e anche per Carnage. Ci capiamo benissimo e tutto funziona bene. Sfortunatamente non è così con tutti i registi, che non sono sempre rapidi o straordinari, ma Roman ama la musica. Ama la musica nel film, e così ama la musica nei suoi film. Quindi per me è una persona magnifica con cui lavorare. Senti che con lui è possibile qualsiasi cosa. Devi solo ascoltare la musica dei suoi film, in particolare quella dei primi, con Krzysztof Komeda, o The Tenant, con Philippe Sarde, che sono dei piccoli gioielli, per capire che fonte di ispirazione sia lui. Lui apre uno spazio ai compositori, una terra incognita, e dice semplicemente:“Vai!”
Decide rapidamente?
Sì. Per L’uomo nell’ombra, ad esempio, ha ascoltato una volta la musica che gli ho proposto e ha deciso immediatamente che sarebbe stata perfetta per i titoli di testa. La stessa cosa è successa con Venere in Pelliccia. Quando gli ho inviato il pezzo di apertura lui mi ha detto solo: “E’ questo!”
Spiega che tipo di musica sta cercando, l’atmosfera che vuole?
No, non dà una vera definizione in termini musicali… Credo che la danza arcaica alla fine abbia fatto da elemento catalizzatore. Poter usare un ritmo greco e il climax del film che va in una direzione completamente inaspettata mi ha messo le ali… come Mercurio!
Come si è evoluto il vostro rapporto dai tempi de L’uomo nell’ombra?
Lavoriamo ancora insieme ed io ne sono veramente felice! Lo ammiro talmente che la prima volta che l’ho visto, 5 o 6 anni fa, a una cena da amici, non ho avuto il coraggio di rivolgergli la parola. Ammiravo talmente i suoi film che non sapevo come presentarmi! Ora abbiamo un rapporto più alla pari. Quando lavoriamo siamo uguali, sediamo uno accanto all’altro al pianoforte e cerchiamo le sonorità. Io suggerisco qualcosa e lui mi dice ciò che pensa. Stiamo bene, davvero. Suonare è una parte importante del nostro lavoro insieme. Quando iniziamo un progetto, sappiamo che l’altro ci sorprenderà, e questo ci spinge a lavorare insieme. Siamo tutti e due affascinati da quanto la musica può regalare alla drammaturgia di un film. Le possibilità sono infinite…
Soprattutto in questo film, che è una sorta di labirinto di specchi…
Vero… Quando rivedo i film in cui lavoro, durante la produzione, le proiezioni, la prima, scompare il senso di novità della prima volta. Con Venere in Pelliccia, ero presente durante le riprese, l’ho visto ancora e ancora e ogni volta trovavo qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, facevo delle scoperte. Il film è un vero turbine di energia e questa è una cosa rara. Come dicevo, Roman pensava fin dall’inizio che fosse necessaria tanta musica, perché aveva in mente l’idea del velo che viene sollevato, amplificando i misteri del film e della storia. Questo effetto di amplificazione avviene la prima volta che Emmanuelle diventa il personaggio di Vanda, e Mathieu torna da lei: inizia la musica e ci trasporta in un mondo di fantasia. E la musica gioca con i riflessi cui accennavo: non si ferma quando loro smettono di recitare e talvolta non c’è appena loro riprendono a recitare. Questo vuol dire che il film non diventa didattico, ma crea fluidità nella narrazione musicale e gioca un ruolo nel creare la confusione che esiste nel loro rapporto.
Roman Polanski partecipa a ogni fase della creazione della musica fino alla registrazione?
Certo, è una cosa che ama. Abbiamo registrato a Parigi e lui è venuto in studio e ha dato altre indicazioni. Ed è presente al lavoro di editing e al missaggio alla prima proiezione. Non molla mai. Ma in genere, i grandi registi non mollano mai.
E’ sorprendente quanto Venere in Pelliccia che pure gli è arrivato in modo inaspettato, sembri echeggiare tutto il suo lavoro. Le è venuto in mente mentre ci lavorava e ne ha tenuto conto?
Si, me ne sono accorto ovviamente, ma non ne ho tenuto conto, no, ogni film è diverso dagli altri. Tutti quegli echi dei suoi film precedenti sono evidenti durante la lettura. E vedere come Mathieu interpreta il personaggio rafforza ulteriormente questa impressione. Non solo somiglia fisicamente a Roman, ma lo ricorda nei gesti, nel modo in cui si muove nella scena in cui lei lo trucca e lui indossa i tacchi alti… Come non pensare a The Tenant? Ha trovato un mondo incredibilmente vicino al suo.
Cosa l’ha colpita di più quando era sul set?
Il modo in cui il regista dirige gli attori. La sua precisione impeccabile e la sua incredibile energia che pervade l’intero ambiente. La sua impressionante concentrazione e la perfezione di ogni momento, di ogni dettaglio, di ogni fonte di luce, di ogni movimento della mano di un attore… E’ impressionante osservare Polanski al lavoro, davvero.
Se potesse conservare solo un momento di tutta l’esperienza fatta con Venere in Pelliccia, quale sarebbe?
Penso al momento in cui lui ha ascoltato la musica della danza finale. Non avevo idea di quale sarebbe stata la sua reazione. E vederlo così felice e sorpreso, così emozionato dalla musica, è stato fantastico. Si è sempre alla ricerca dell’approvazione, e quando Roman Polanski ti dice che hai fatto un ottimo lavoro è un momento magico.
Intervista con Pawel Edelman, Direttore della Fotografia
Venere in Pelliccia è il suo quinto film con Roman Polanski, dopo Il pianista, Oliver Twist, L’uomo nell’ombra e Carnage, che hanno stili visuali molto diversi. Quale è stata la sfida più grande di questo film?
Senza dubbio questo è stato il film più difficile da realizzare. Era un altro adattamento di un lavoro teatrale, ma la sfida era maggiore rispetto a Carnage: eravamo ancora una volta in un’unica location, ma con due personaggi soltanto. E non c’è niente di più difficile per un regista e un direttore della fotografia! Come riuscire a tenere vivo l’interesse degli spettatori per un’ora e mezza semplicemente seguendo due persone in uno spazio di dieci metri senza che il film sembri un lavoro teatrale o una serie televisiva? La cosa più importante erano le luci, e i cambiamenti di luce definiscono, sottolineano e tracciano i contorni dello spazio. Fanno apparire e scomparire… e permettono agli attori di muoversi con facilità e sentirsi a loro agio in ogni posizione e in qualsiasi posto.
Come definirebbe la luce che ha creato per Venere in Pelliccia?
E’ sempre difficile per me descrivere in modo particolareggiato la luce che ho ideato. Sapevo che dovevo far risaltare gli attori nello spazio e quindi ci sarebbero state molte zone scure che gli spettatori avrebbero dovuto riempire con la loro immaginazione. Ovviamente la grande idea era che il pubblico dimenticasse che eravamo in un teatro. Avevamo bisogno di creare un’atmosfera, un clima che ci facesse penetrare nel regno del simbolismo. I teatri sono spazi concreti, e talvolta abbiamo bisogno di trasformarli in uno spazio astratto.
Roman Polanski le ha parlato della sua visione estetica prima di iniziare a girare?
Non abbiamo avuto molto tempo per parlare, perché tutto è successo molto rapidamente. Ovviamente abbiamo avuto uno o due incontri prima che iniziassero le riprese per chiarire cosa cercavamo. Abbiamo anche visto due o tre film, come Chicago di Rob Marshall, che è molto diverso, ma parla di una rappresentazione teatrale, è fantasia e realtà, per vedere se i problemi che ci ponevamo erano già stati risolti e come.
Quale scena è stata più difficile da illuminare?
Senza dubbio la scena finale della danza. Non avevamo un’idea precisa e chiara di come girarla, quindi abbiamo provato parecchi tipi di luce prima di decidere quella che avremmo usato.
E’ una bella scena. La danza è così insolita, la musica così bella e Emmanuelle è così incantevole…
Sappiamo che Roman Polanski è molto preciso ed esigente. Quale spazio di manovra le concede quando lavorate insieme?
Ora lo conosco molto bene e so esattamente qual è la mia posizione durante le riprese, qual è il mio posto. Mi sento completamente libero di creare le luci – questo è l’ambito in cui ho spazio di manovra è molto ampio. Tutto il resto – la posizione della macchina da presa, dove si posizionano gli attori nell’inquadratura, etc. – questo è il suo lavoro. Per me è importante, quando accetto un progetto, fare un lavoro che sia completamente al servizio del film, che racconti la sua storia…
Quale pensa sia il suo punto di forza come regista?
L’aspetto affascinante di Roman è il suo non essere solo regista, ma anche attore, così è facile per lui tradurre quello che vuole in un linguaggio che gli attori capiscono immediatamente. E’ sorprendente vederlo comunicare con loro in modo così chiaro. Ed è stato un vero piacere osservare Emmanuelle e Mathieu recitare insieme, quasi come se fossimo parte di un vero pubblico. Un altro aspetto affascinante di Roman è il suo senso della composizione, il suo istinto per le immagini. E’ raro trovare entrambe queste qualità in un regista. Di qualsiasi film si tratti, Roman ha una visione chiarissima di ciò di cui ha bisogno, sa perfettamente come vuole che sia il film e il look che deve avere.
Ricorda la prima volta che l’ha incontrato?
Come potrei dimenticarlo? Mentre mi stavo preparando a partire per le vacanze con la mia famiglia, ho ricevuto una telefonata, era lui che mi chiedeva se volevo lavorare per Il pianista. E’ stato come se il cielo si illuminasse all’improvviso, ma molto più piacevole! Era un mito per me. Non riuscivo quasi a credere che mi avesse chiesto di lavorare con lui. Probabilmente è stato Andrzej Wajda, con cui avevo lavorato molto, a raccomandarmi e a dargli il mio numero di telefono. Poi ci siamo incontrati a Berlino e abbiamo parlato dello stile visuale de Il pianista.
Il fatto che siate entrambi polacchi ha favorito la comprensione tra voi?
Sì, ma non in modo superficiale come si potrebbe pensare… Roman ora parla sette lingue, ha vissuto ovunque, è a casa ovunque, eccetto, forse, negli Stati Uniti. E per prima cosa è soprattutto un cittadino del mondo. Ma è anche vero che abbiamo le stesse radici, abbiamo letto gli stessi libri, ricordiamo le stesse canzoni, abbiamo respirato la stessa aria… E’ qualcosa di più profondo, che viene da dentro
Se potesse conservare solo un’immagine di tutta l’esperienza di Venere in Pelliccia, quale sarebbe?
Non so. Per me un film è un insieme organico. Forse sarebbe l’immagine di Roman che dirige Emmanuelle con una precisione da mozzare il respiro, fino al minimo gesto.
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