Un teatro che vuol far sognare ancora
Dopo un “Train Of Thought” poco convincente, i Dream Theater ritornano a sonorità più soft ma, soprattutto, più progressive con “Octavarium”, un album capace di far parlare di sé. Tutta l’opera è pervasa da riferimenti alla numerologia e al numero otto, elemento che emerge nella title track finale, una lunga suite di rimandi alla musica progressive di tutti tempi.
L’album si apre con “Root Of All Evil”, il terzo episodio della “saga” sull’alcolismo di Mike Portnoy: una traccia dalle sonorità dure, che si apre dopo una breve opening caratterizzata da effetti sonori sporchi e da una climax di batteria. Non si esagera con inutili prodezze, qui i nostri ragazzi sono più che mai concentrati a regalarci un bel pezzo. Segue una canzone di tutt’altro tipo, “The Answer Lies Within”, dai toni più dolci e pacati, ma che tuttavia non presenta quel accento stravagante tipico della band.
“These Walls” propone un sound decisamente più travolgente, dalle sonorità potenti ma non per questo troppo rudi, anzi. La canzone scorre su note dolci come la precedente, ma lo fa con tutta un’altra forza e con un testo dai toni commossi.
Segue la dimenticabile “I Walk Beside You”, una delle canzoni più commerciali della band ma, soprattutto, una canzone davvero troppo scontata, che nel suo rifarsi agli U2 fallisce miseramente, nonostante riprenda tono in alcune sezioni.
“Panic Attack” torna invece allo stile di “Root Of All Evil”, ma con un ritmo più spedito, travolgente, del tutto in linea con il testo della canzone, capace di trasmettere davvero il “panico” del titolo. Una canzone di indubbio valore.
Segue “Never Enough”, che si rifà nell’intro e nella voce angosciata ad “Hysteria” dei Muse, ma proponendo effetti ed una energia tutta Theateriana. Molto buona.
“Sacrificed Sons” è una canzone che torna invece a toni più pacati e patetici, incentrata sugli orrori del 9 settembre. Una prodigiosa voce di Labrie è accompagnata da dolci e malinconici suoni di pianoforte che proseguono con una lenta ma avvolgente climax, emozionante fino alla fine, con un assolo capace di sconvolgere tutta la quietezza, come un brusco scossone, ma davvero azzeccato.
Giungiamo quindi al “piatto forte”, la maestosa title track di 24 minuti, “Octavarium”. Descrivere questa canzone non è facile, perché potrebbe essere scissa in tante e tante tracce: dentro a questa piccola perla troviamo tutta la storia del progressiva, tra il sound dei Pink Floyd e quello persino dei Jethro Tull. Una performance che lascia spiazzati, accompagnata da strumenti da orchestra che fanno da sfondo a sonorità tanto varie quanto appassionanti. Inutile dilungarsi, questa canzone va vissuta per poter essere compresa, e i più esperti vi troveranno le più disparate “citazioni” ad altri artisti.
Il teatro riapre i battenti
In definitiva ci troviamo di fronte ad uno degli album più particolari dei Dream Theater, forse anche il più maturo. Sonorità complesse ma che non scadono in inutili prodezze prive di senso, mantenendo intatta l’atmosfera che avvolge l’ascoltatore. Nonostante i cali di tono in certi frangenti, Octavarium non può non essere apprezzato, pur non toccando i livelli di opere d’altri tempi quale fu in primis “Images & Words”.
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