Ogni amante dell’Heavy Metal (o del Metal in generale), conosce almeno una canzone degli Iron Maiden.
Ed alcuni di loro, si sono avvicinati al suddetto genere, proprio acquistando un loro disco (magari attratti dalle coloratissime copertine) o vedendo un loro videoclip.
Gli Iron Maiden, nel corso della loro ormai trentennale carriera (1980 – Iron Maiden, il debut album), hanno raggiunto lo status di istituzione musicale, sfornando dischi a raffica (tutti di qualità, eccetto la leggermente spenta parentesi Bayley), scalando le classifiche, e organizzando tour mastodontici, in giro per il globo.
Dal 2000 in poi, la band ha chiaramente voltato pagina, sia nella formazione che stilisticamente, introducendo la cosiddetta formazione “allargata” (con le 3 chitarre Smith – Murray – Gers) e variando un sound, che introduce melodie articolate e lente, ed un uso di tastiere, un pò come accadeva in Seventh Son of a Seventh Son (1988), da molti considerato uno dei picchi più alti, raggiunti dalla band britannica.
Dopo due album considerati degni dei fasti di un tempo (2000 – Brave New World e 2003 – Dance Of Death), nel 2006, Harris e soci articolano ancor di più il loro sound, con A Matter Of Life And Death, introducendo lunghe intro arpeggiate, con Dickinson in veste di narratore, e diversi cambi di tempo durante lo sviluppo della canzone.
Questo cambio di rotta, poco ha giovato alla band, che infatti è stata pesantemente criticata, sia per la svolta stilistica non proprio apprezzata, sia per aver proposto per intero A Matter Of… , durante le esibizioni live della prima leg dell’ A Matter Of Life And Death World Tour.
Critica comprensibile visto l’elevato minutaggio dei brani, dell’opera targata 2006.
Quattro lunghi anni, si è fatto attendere il successore del controverso A Matter Of…, il periodo più lungo intercorso tra un opera e l’altra della band britannica. Anche se nel frattempo ci hanno intrattenuti con i vecchi classici durante il Somewhere Back In Time World Tour 2008-2009.
Alla volta di agosto 2010, giunge nei negozi carico di attese The Final Frontier, quindicesima opera in studio del sestetto britannico.
Procediamo all’analisi.
IL DISCO
ARTISTA: Iron Maiden
TITOLO: The Final Frontier
DURATA: 76 Minuti
GENERE: New Wave Of British Heavy Metal
LABEL: EMI
ANNO: 2010
1. SATELLITE 15… THE FINAL FRONTIER (8:40): Il disco si apre con una corposa intro di 4:35 minuti (Satellite 15), costituita da chitarre sintetizzate e percussioni roboanti e alla volta dei 3 minuti, interviene Dickinson, in veste di narratore, raccontando la storia di un astronauta perso nello spazio, che cerca di contattare la Terra.
Personalmente ritengo questa intro futile e senza senso, in quanto sarebbe stato più azzeccato inserire il disco e ascoltare direttamente il rullante di Nicko che sancisce l’inizio di The Final Frontier, title-track dal sapore rockeggiante con un flavour che ricorda a tratti la traccia Holy Smoke, presente in No Prayer For The Dying dell’ormai lontano 1990.
La traccia risulta gradevole e con un buon ritornello chewing-gum, che non esiterà un momento per incastonarsi nel vostro cervello come un loop. Highlight!
2. EL DORADO (6:49): Traccia usata per il lancio del disco, nel mese di giugno del 2010. Una traccia anche questa dall’andamento più rock, che heavy, che inizia con una cavalcata di basso e batteria, che sfocia in un bridge lamentoso, ed un refrain molto scontato e poco brillante. Nonostante sia stato il primo singolo estratto dal disco, risulta a conti fatti una traccia anonima, con qualche buono spunto durante il solo di chitarra, ma che non risulta incisiva al punto giusto. Non così tanto da essere stata scelta come singolo di apertura.
Curiosità: la traccia parla della confusione creata dalla crisi dei mercati mondiali, e delle speculazioni create dagli uomini d’affari.
3. MOTHER OF MERCY (5:20): Prima traccia del disco che segna il ritorno all’heavy più classico, ricordando in alcuni passaggi il Dickinson solista.
Ottimo l’inizio arpeggiato, con un Dickinson che funge da (magistrale) narratore, per una storia di guerra e disperazione. Traccia che esplode dopo circa 1 minuto e mezzo in un poderoso mid-tempo, accompagnato da chitarre che a tratti ricordano Somewhere In Time, salvo poi sfociare in un ritornello piuttosto blando e scanzonato, molto sconnesso dall’atmosfera creata fino al bridge. Un buon solo di chitarra di Adrian Smith, funge da ponte per il ritorno della seconda strofa, che inevitabilmente si perderà in un ritornello lamentoso ed urlato (più che cantato) da Dickinson. Una buona traccia, che sarebbe potuta essere ottima, risultando a conti fatti un’occasione sprecata.
4. COMING HOME (5:52): Semi ballad da quasi 6 minuti, messa su dal trittico Smith, Dickinson, Harris. Partenza dall’andamento lento e gradevole, sfocia in un bridge poderoso dove a farla da padrone saranno le 3 chitarre con un riff graffiante, e Dickinson ancora una volta maestoso che ci degna di una prestazione eccellente. Ottimo il ritornello, epico ed interpretato ottimamente (ancora!) da Bruce (a 52 anni!). Menzione particolare va fatta al solo di chitarra, risultando a conti fatti, uno dei più belli e coinvolgenti messi su dal duo Murray-Smith, di chiaro stampo “Satriano“. Traccia indimenticabile, che solca nuovi terreni e nuove atmosfere per la band britannica. Uno degli highlight del disco!
5. THE ALCHEMIST (4:29): Si torna al passato, con un classico up-tempo sullo stile di Man On The Edge, presente nel buon The X Factor. Riff classicissimo, ma molto efficace.
Con questa traccia, i nostri vogliono far capire che sono ancora in pista e che sono ancora in grado di comporre musica come una volta. Nonostante sia palese il riciclaggio di riff e soli di chitarra, questa traccia risulta ottima e divertente, che scatenerà nei Maiden-fan e negli amanti dell’heavy più classico, un’insana voglia di headbanging! Highlight!
6. ISLE OF AVALON (9:06): Il disco cambia volto. Dopo le prime 5 tracce assimilabili, i nostri tornano a solcare le vie della sperimentazione. E questa prima suite da 9 minuti, ne è la prova. Peccato che i nostri falliscano la prima occasione, mettendo su una traccia prolissa e monotona fino alla nausea, nonostante qualche buono spunto come nella strofa post-intro e nell’atipico break centrale di chiaro stampo progressive. Tuttavia l’eccessiva lunghezza della traccia, e la ripetitività di alcuni passaggi, rendono questa traccia una delle più pesanti e difficilmente assimilabili del disco.
7. STARBLIND (7:48): Altra suite da quasi 8 minuti. Nonostante la non proprio facile durata, questa canzone risulta più varia e assimilabile della precedente. Con una strofa brillante ed un refrain estremamente galvanizzante, che ricorda a tratti Infinite Dreams, di Seventh Son Of a Seventh Son. Ma terminato il ritornello, i nostri si cimentano nell’hard rock anni ’70, con un ottimo riff ed un grande solo d’accompagnamento. Dopo di ché, l’ennesimo break! E il trittico di chitarristi, si cimenta in quello che sa fare meglio! Del classico heavy metal di stampo Maiden, accompagnato da tastiere. In questa canzone, viene messa in risalto la voglia dei Maiden, di solcare nuove vie, e magari amalgamarle a quello che è il loro classico genere. Un’ottima traccia, che potrà richiedere più di un ascolto per poter essere apprezzata appieno.
8. THE TALISMAN (9:03): Ancora una pezzo lungo, ma questa volta più alla portata di tutti (riproposto infatti, anche dal vivo). Il pezzo, trae ispirazione nelle liriche da un classico del passato Maiden, Rime Of The Ancient Mariner, risultando però diverso nella struttura e nelle melodie.
Infatti dopo un’intro acustica di quasi 2 minuti e mezzo, la canzone esplode in una cavalcata vincente che tira fino alla fine. 7 minuti di trionfo di chitarre, basso, batteria e voce. Questa suite ricalca in pieno la voglia dei Maiden, di mettersi in gioco e fare Heavy Metal. Dai palm-muted delle chitarre, alle cavalcate di Harris al basso, dalle terzine di Nicko alla batteria e dall’aggressività di Dickinson alla voce. Complici anche un ritornello che Dickinson canta a squarciagola (Westward the tide!), ed un break atipico nel solo. Nonostante, nelle melodie, sia palese il riferimento ad Out Of The Silent Planet di Brave New World, questa canzone può essere considerata un vero e proprio Highlight!
9. THE MAN WHO WOULD BE KING (8:28): Prima ed unica traccia scritta dal chitarrista Murray (in cooperativa ovviamente con Harris). Questa lunga ed articolata canzone, inizia come di consueto con un intro acustica estremamente atmosferica e docile, per sforciare in un classico gioco di chitarre che ricorda le atmosfere di Powerslave. Strofa innocua, con un riff classicamente Maiden, ma leggermente riciclato. Inspiegabile, poi, il break centrale di chitarre che spezzano l’atmosfera creata. Questa lunga suite, sarebbe potuta essere un valore aggiunto del disco, con diversi spunti interessanti ed alcuni richiami al passato storico della Vergine di Ferro, come Piece of Mind e Powerslave.
10. WHEN THE WILD WIND BLOWS (10:59): E siamo arrivati alla fine. Il nuovo lavoro dei Maiden, è giunto alla conclusione. E come concluderlo, se non con un’altra suite da 11 minuti… Molti penseranno ad uno svolgimento piuttosto prolisso e ripetitivo, ma le docili note di When The Wild Wind Blows, ci accompagneranno nel lungo addio di questo disco, come una ninna nanna. Le liriche narrano di una catastrofe non ben precisata, e dell’allarmismo della gente che cerca riparo. Liriche magistralmente interpretate da Bruce Dickinson, qui in veste di “cantastorie”. Questa traccia rappresenta la quint’essenza di quello che sono i Maiden oggi, e di quello che potrebbe essere il futuro sentiero che la band intraprenderà per il prossimo studio-album, fatto di melodie in pieno Maiden-style, ma con un reinterpretazione di un genere che loro hanno stessi hanno creato e plasmato.
La traccia scritta esclusivamente da Harris, dimostra come il bassista sia in grado ancora di scrivere delle vere e proprie opere (dopo Blood Brothers, No More Lies e For The Greater Good Of God, solo per citare le ultime). Risultando questa traccia, come tra le più apprezzate anche in sede live!
Se non è highlight questo…
CONCLUSIONE: I Maiden, ci hanno dato molto nel corso degli anni. I fan dei Maiden più classici potrebbero accusarli di essere degli animali commerciali, di continuare a pubblicare album senza anima.
Pazienza. Loro lo fanno perché amano comporre, e questo album ne è la prova. Un album Maiden alla massima potenza, dove vecchio e nuovo si incontrano e si mescolano.
The Final Frontier, cavalca l’onda del NWOBHM più classico, con sfumature Hard Rock e diverse sperimentazioni. Inoltre, possiamo sottolineare un lavoro certosino sugli arrangiamenti, dove finalmente i nostri hanno capito di avere ben 3 chitarre da poter sfruttare.
Tornando al punto focale dell’articolo, i Maiden al giorno d’oggi amano comporre come desiderano, senza vincoli e limitazioni… E a noi piace, e va bene così!
Davide dice
Bella recensione!
maidenmaniac dice
@Davide Grazie! 🙂
colin dice
da uno che si chiama maidenmaniac, non ci si poteva aspettare altro che una bella recensione.
complimenti.
Marcozale dice
Demonio ladro, davvero una recensione fatta con i controfiocchi bravo.
maidenmaniac dice
Vi ringrazio entrambi. 🙂
Mi raccomando, votatela! 😀