Netflix con My Demon ci regala una delle più affascinanti produzioni coreane degli ultimi anni. My Demon è una serie che mescola con maestria i generi più vari: fantasy, romance, thriller politico e dark comedy.

Do Do-Hee (Kim Yoo-Jung) è una giovane donna in carriera molto cinica e ambiziosa, Jeong Gu-Won (Song Kang) invece è un demone millenario dai poteri oscuri ma dall’aspetto angelico. Quando i poteri di Gu-Won vengono misteriosamente trasferiti a Do Do-Hee le loro esistenze si intrecciano in un vincolo forzato prima dalla necessità e poi dall’amore.
Questa serie ha un’estetica raffinata, i toni cupi e quasi gotici, sono bilanciati da una regia brillante e moderna con inquadrature fluide, colori saturi e una fotografia che gioca sapientemente con luci e ombre per riflettere i conflitti interiori dei personaggi. Niente viene lasciato al caso e il contrasto visivo tra il mondo spietato dell’alta finanza e l’elemento soprannaturale è reso con intelligenza e un pizzico di ironia.
Alla base di My Demon c’è una storia d’amore ma non è la solita parabola romantica. Qui l’amore non è solo salvezza, è anche dannazione, crescita, sacrificio e alla fine liberazione. La tensione tra Gu-Won e Do-Hee è costruita con un’ottima gestione dei tempi narrativi, i due non si piacciono, si sfidano e si combattono ma in questa guerra fatta di sguardi parole taglienti e segreti, cresce un sentimento sempre più profondo che li fa vacillare e li smuove dalle loro convinzioni.
Gu-Won, inizialmente arrogante e distaccato, incarnazione di un male elegante, è costretto a rivedere la sua intera esistenza e la sua vera natura. Do-Hee invece è una donna che ha sofferto, non chiede pietà e costruisce il suo potere con intelligenza e strategia, in Gu-Won troverà il suo specchio e la sua redenzione.
Song Kang riesce a dare profondità a un personaggio che rischiava di apparire troppo stereotipato come il demone maledetto ma bellissimo, lui riesce a renderlo sfacciato, ironico e fragile nei punti giusti. Kim Yoo-jung dal canto suo regge il peso di un personaggio notevole, Do Do-hee è una protagonista di spessore e non la classica ancella dell’eroe che deve essere salvata. Lei è il motore della trama e detta i tempi del cambiamento. La chimica tra i due attori è innegabile ed è una delle ragioni per cui la serie riesce a mantenere altra l’attenzione per tutti e 16 gli episodi.

Uno dei pregi di My Demon è il modo in cui riesce a inserire complesse sottotrame come quella dell’eredità della fondazione e delle lotte di potere interne, senza mai perdere di vista l’arco emotivo dei protagonisti. L’ambiente aziendale, con le sue maschere, gli intrighi e le pugnalate non solo metaforiche, è uno specchio della disumanità in cui anche un demone può sentirsi a casa.
La sceneggiatura intreccia abilmente la componente fantasy con il realismo sociale espresso dall’avidità, la brama di potere e controllo, la solitudine dell’élite e il peso del passato. Ogni personaggio secondario, dalla nonna che dà alla storia un cuore umano, fino ai subdoli consiglieri e manager della fondazione, aggiunge qualcosa di interessante e per nulla banale al mosaico generale. Non mancano poi i momenti di leggerezza con gag ben dosate, dialoghi brillanti e giochi di ruolo tra i protagonisti, che strappano un sorriso e riescono a stemperare la tensione senza essere mai fuori luogo, rendendo i personaggi più umani ed accessibili senza sminuirli.
Il punto più affascinante di My Demon è la riflessione implicita sulla naturale del male. Cosa è un demone oggi? Una creatura infernale o l’ambizione cieca, la corruzione dei sentimenti, la solitudine imposta da una società fredda e spietata? Gu-Won è, all’inizio, una entità quasi mitologica, ma episodio dopo episodio si scopre quanto sia molto simile agli uomini. La serie si muove così in bilico tra il simbolico e il concreto. La fede, la reincarnazione, il destino sono elementi presenti ma mai trattati con superficialità. Piuttosto vengono trasformati in metafore dell’identità, del libero arbitrio e del bisogno umano di trovare il senso della vita. Il percorso dei protagonisti è in fondo una parabola di trasformazione. Un demone che impara a sentirsi umano, una donna che, pur non avendo poteri, riesce a dominare il suo mondo. Entrambi perdono qualcosa lungo il percorso ma trovano in questo steso cammino la propria definizione.

My Demon risulta quindi una scommessa riuscita, è una serie che osa sia visivamente, fondendo estetiche gotiche con ambienti ultramoderni. Osa narrativamente, proponendo un racconto ibrido che mescola una fiaba dark, politica, potere e un amore soprannaturale. Osa infine emotivamente, chiedendo allo spettatore di credere nell’amore tra una donna ferita e un demone immortale, rendendo questa relazione credibile e intensa. Tuttavia non è una serie perfetta, è carica di cliché melodrammatici che possono sembrare ridondanti ma questa storia non punta al realismo, vuole solo entrare nel cuore dello spettatore e riesce nell’intento. Grazie a una coppia magnetica e ad una regia di alto livello, si impone come uno dei k-drama più riusciti di Netflix, riuscendo a raccontare una storia antica con una voce nuova e autentica.






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