Alice in Borderland è una serie adrenalinica targata Netflix davvero da recuperare se non l’avete ancora vista. Sin dal primo episodio si capisce che una volta dentro non si può più tornare indietro, in una Tokyo completamente deserta iniziano ad apparire delle carte da gioco e pochissimi prescelti vengono trascinati in un gioco mortale dal quale non si può più uscire. Quando il divertimento lascia spazio alla paura vera, quella che stringe lo stomaco, si capisce che i protagonisti non giocano per un montepremi ma solo per restare vivi.

In questa serie vengono presi la prova, il sacrificio e la selezione e vengono impreziositi con tecnologia, neon e solitudine urbana. Arisu (Kento Yamazaki) non è un eroe e non lo è mai stato, è solo un ragazzo che ha smesso di credere in se stesso prima ancora che il mondo smettesse di farlo, ed è proprio questo che rende la serie interessante. Nessuno è pronto per ciò che lo aspetta e nessuno ne è davvero all’altezza, proprio come nella vita vera. Il Borderland non è un solo un luogo ma uno stato mentale, è il limbo in cui finiscono coloro che hanno perso la direzione, un valore o un motivo per alzarsi la mattina. I giochi non sono semplici prove di abilità ma giudizi morali mascherati da sadico intrattenimento. Ogni carta che si riceve chiede qualcosa di diverso ma tutte pretendono la stessa cosa: scegliere chi sei davvero senza più poter mentire a nessuno, nemmeno a te stesso.

La regia è diretta e brutale, non cerca di essere elegante, punta ad essere incisiva. Le inquadrature lunghe e silenziose di una Tokyo svuotata, parlano più dei personaggi stessi. La violenza è sempre cruda e diretta ma non viene spettacolarizzata, è solo la conseguenza delle scelte dei protagonisti che cercano di restare in vita. Il cuore della serie resta però il rapporto tra i personaggi. Arisu, Usagi, Chishiya, Kuina, ognuno di loro porta addosso una ferita diversa e il Borderland non fa che riaprirla. Usagi (Tao Tsuchiya) è il contrappeso morale e la memoria di un mondo in cui resistere aveva ancora un senso. Chishiya (Nijirō Murakami) incarna l’intelligenza senza scrupoli, affascinante e pericolosa come una lama affilata. Kuina (Aya Asahina) è forse il personaggio più silenziosamente potente, la sua forza viene conquistata passo dopo passo.

La seconda stagione alza il livello e diventa, se possibile, ancor più spettacolare e profonda della prima. I giochi diventano sempre più complessi e introspettivi, spingono i giocatori al limite sia fisico che emotivo. Temi come la depressione, il senso di fallimento generazionale e il nichilismo, pur non essendo mai nominati apertamente, sono argomenti trattati con rispetto, diventando i punti chiave che hanno reso i protagonisti quello che sono, con tutte i loro problemi e le loro insicurezze. Ora non si tratta più solo di sopravvivere ma di capire perché è necessario farlo. Il Re di Cuori non è solo un antagonista ma una vera provocazione morale che li invita a guardare in faccia il vuoto e decidere se vale la pena riempirlo. Lo spettatore è quindi spinto a domandarsi cosa sarebbe disposto a perdere pur di restare in gioco? e soprattutto, una volta tornato indietro nel mondo di prima, sarebbe ancora la stessa persona?
Questa serie merita di essere vista perché non è un semplice survival game, ma invita a riflettere sul vero valore della vita stessa. Porta lo spettatore a voler far pace con i propri demoni interiori per poter rendere il mondo reale un posto migliore in cui vivere perché, mentre nel Borderland si gioca per restare vivi, nel mondo reale spesso ci si dimentica di esserlo, lasciando che le giornate scorrano una dietro l’altra senza alcun valore.







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