Non lasciatevi ingannare dal titolo all’apparenza drammatico, Baek Sehee ci regala un resoconto profondo ma allo stesso tempo ironico del suo percorso psichiatrico, nel cui racconto ogni lettore saprà riconoscersi perché tutti prima o poi, nel corso delle proprie vite, si sono ritrovati in una delle situazioni descritte da lei nel modo più semplice e onesto possibile.

C’è un momento, leggendo questo libro, in cui ci si ritrova a fissare la pagina con un senso di riconoscimento quasi imbarazzante, non perché il racconto voglia stupire, ma perché dice le cose così come sono, senza filtri e con quella schiettezza che solo chi ha davvero attraversato una stanza buia può permettersi. La sua è una voce che non grida e non cerca la grande rivelazione, si limita a raccontare e nel farlo apre scenari che molti di noi conoscono ma non osano nemmeno nominare.
Il diario-terapia di Sehee non è un romanzo nel senso tradizionale, ma un percorso di fratture microscopiche, di confessioni che zoppicano e di dialoghi clinici disarmanti.
È un libro che sa essere duro e allo stesso tempo tenero, come la vita quando si ostina a chiederti di andare avanti mentre tu vorresti solo premere pausa. Eppure, in mezzo a tutta quella foschia emotiva, spunta un piatto di Toppokki. Un conforto semplice, quasi infantile, che dà un nome a una verità: si può desiderare la fine e allo stesso tempo avere fame? Si può essere stanchi di tutto ma non della possibilità di donarsi una piccola gioia?
Leggere questo libro significa entrare in una conversazione altrui e scoprire che, in realtà, parla anche di te.
Io sono sempre il bersaglio di me stessa. Anche quando rimango ferita in uno slancio verso gli altri, finisco sempre per incolpare me stessa. E, più graffio gli altri, più profonde sono le mie ferite.
Il terapeuta incalza, Sehee risponde a metà, saltando tra paure ed insicurezze, sembra sempre sul punto di crollare. Le dinamiche sono ripetitive, come se la mente fosse un corridoio in cui si cammina avanti e indietro senza riuscire a scegliere una porta. Ma la ripetizione non stanca, anzi, rassicura. È così che funziona il dolore che non ha nome, ritorna, insiste e si traveste da normalità. Questo libro ha un merito raro: non promette guarigioni. Non costruisce finali trionfali ne cartoline motivazionali. Mostra semplicemente il processo con le sue lentezze, i suoi inciampi e le sue contraddizioni. Ogni capitolo è un piccolo respiro dato con fatica, un passo di quelli che di solito nessuno vede. Nella scrittura di Sehee c’è una compostezza quasi timida che rende tutto più autentico. Parla della propria depressione senza eccessi, senza il bisogno di estremizzare, è un dolore quotidiano, consumato in silenzio e fatto di dettagli che si mimetizzano nella vita normale.
A me piace stare per i fatti miei. Ma a una condizione. Che da qualche parte ci sia qualcuno che mi voglia bene o che mi ami. Se ho qualcuno che si interessa a come mi sento, riesco a stare da sola.
Eppure in fondo a quelle pagine affaticate, pulsa un fermento nuovo: l’idea che il percorso valga comunque la pena, che la mente sia una stanza che si può riordinare, un cassetto alla volta. Che la fragilità non è qualcosa da nascondere ma un materiale da lavorare, come l’argilla. Il libro non grida ma suggerisce speranza e la lascia intravedere tra una frase trattenuta e un appunto clinico. Un filo sottile ma tenace.
È impossibile arrivare fino in fondo senza provare un moto di compassione verso l’autrice certo, ma anche verso se stessi. Come se Sehee, nel raccontarsi con tanta onestà aprisse una porta e dicesse ” Puoi entrare, non c’è niente di cui vergognarsi“. Così pagina dopo pagina, ci si accorge che quello spazio non fa paura, è umano, fragile e proprio per questo vero. A volte basta un piatto caldo per ricordarci che non siamo finiti ma solo stanchi e la stanchezza, al contrario della fine, passa.
Quando attraversiamo un brutto momento, siamo noi le persone che soffrono di più. E non è da egoisti concentrarsi su se stessi







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